H. F. Searles, «Tecniche terapeutiche», 1978, in Il paziente borderline (1986), Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
Una sezione di questo contributo è dedicata a «I silenzi dell’analista e le reazioni di traslazione del paziente, nei loro mutevoli aspetti di realtà». In cosa consista la creatività di cui parla Balint (creatività che si sostanzia anche, ma non soltanto, d’un saper regredire e co-regredire) lo si ritrova in qualche misura nei contributi di Searles, un autore molto attento al silenzio. Searles elabora una sua psicologia del silenzio in particolare negli Scritti sulla schizofrenia, del 1965, e nei saggi raccolti ne Il paziente borderline, del 1986. Quali ne sono gli aspetti portanti? Primo: il silenzio non è mai neutrale. Secondo: non è automaticamente equiparabile a una attenzione egualmente fluttuante. Terzo: è lo strumento terapeutico più sicuro ed efficace. Quarto: è spesso più facilitante di una modificazione della personalità. «Con ogni paziente, indipendentemente dalla sua patologia, ritengo che il mio silenzio costituisca lo strumento terapeutico più sicuro ed efficace» scrive Searles e continua «Per quanto concerne il tipo di silenzio manifestato dall’analista, cioè la natura specifica della sua relazione non verbale con il paziente, sono giunto a credere che quando scopro nel paziente un conflitto inconscio su cui resto in silenzio per mesi o addirittura per anni, perché considero prematura un’interpretazione su questo aspetto conflittuale, la mia rispondenza non verbale o la mia partecipazione ne sono comunque modificate in maniera significativa».
Il fatto che il paziente reagisca alla modificazione che il silenzio dell’analista ha provocato nell’analista mi fa pensare alla sottigliezza dell’arte alchemica, dove per sottigliezza va intesa una cifra del fare analisi direttamente proporzionale alla profondità. Secondo Searles, come s’è detto, appare di fondamentale importanza liberarsi quanto più possibile dall’illusione che il silenzio dell’analista possa automaticamente equipararsi a un’attenzione distaccata e liberamente fluttuante. Come va intesa questa considerazione? Come potenzialità resistenziale del silenzio dell’analista. Il silenzio non è provvisto d’una valenza assoluta, indipendente dal contesto in cui si produce. Se è vero l’assunto, già ferencziano, secondo il quale chi resiste all’analisi, propriamente, è l’analista, allora il fatto che l’analista faccia silenzio non implica necessariamente che faccia tèchne col suo silenzio. Il silenzio non è certamente uno e medesimo. Ciò riguarda ad esempio il modo in cui può essere vissuto e considerato, interpretato il silenzio del paziente. Come accettazione, ad esempio, e ancora come aggressività, angoscia persecutoria, crescita tranquilla, disperazione, distanza emotiva, esperienza di armonia, fiducia, incapacità di affrontare l’ansia depressiva, integrazione, ostilità paranoide, pace, rifiuto, ritiro, scoraggiamento, seduzione sessuale, sintomo di una coazione a ripetere, sospetto, vuoto. D’altro canto i pazienti possono vivere il silenzio dell’analista come condanna, insoddisfazione, minaccia, ostilità, rifiuto, rimprovero, accusa. Un silenzio prolungato «soprattutto verso il paziente e contro di lui rischia di essere interpretato come rifiuto, condanna e insoddisfazione. Può essere al servizio dell’insoddisfazione del Super-io proiettata sugli oggetti introiettati, può essere il soddisfacimento della tendenza pulsionale masochistica. Quest’ultimo fenomeno può restare in ombra per molto tempo, perché gratifica, per così dire idealmente, il senso di colpa inconscio, il bisogno di punizione e il masochismo, garantendo contemporaneamente la reazione terapeutica negativa» .
Non esiste una psicologia del silenzio. Le reazioni di traslazione ai silenzi dell’analista sono secondo Searles una parte ancora scarsamente considerata nella letteratura. E’ facile, continua Searles, per una analista conservare acriticamente l’illusione che restare in silenzio in seduta equivale ad assumere un atteggiamento sostanzialmente neutrale, secondo la migliore tradizione della psicoanalisi classica». «Al contrario è bene avere presente che le diverse reazioni di traslazione al silenzio dell’analista hanno probabilmente la loro origine nel tipo di silenzio che l’analista gli sta presentando». Quanto precede acquista una particolare rilevanza se lo si confronta col dato percentuale offerto da Searles in merito alla osservanza media del silenzio da parte dell’analista. Egli ritiene che, nella maggior parte dei casi, il novanta per cento d’un trattamento psicoprofondo trascorra nel silenzio dell’analista. La questione fondamentale diventa allora secondo me, quella di considerare cosa fa un analista durante il proprio silenzio. Ogni contributo relativo a questo versante del trattamento analitico va a vuoto se non inquadra la questione del silenzio dalla parte dell’analista. Non si tratta tanto di stabilire cosa promuove il silenzio, quanto di analizzare cosa effettivamente accade durante il suo impero.