in Sviluppo affettivo e ambiente, 1965, Roma, Armando, 1983 (4a ristampa).
estratto da Giorgio Antonelli, I silenzi e la psicoanalisi. Rassegna bibliografica, a cura del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, coordinata da Giorgio Antonelli, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998.
Si tratta di un contributo non specifico sul silenzio, ma che si apre su una prospettiva, la capacità di essere soli, che Winnicott lega esplicitamente al silenzio. Se la capacità di essere soli è «uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo», è possibile ritenere che il suo corrispettivo clinico sia rappresentato «da una fase o da una seduta di silenzio» durante la quale il paziente, lungi dal resistere al lavoro analitico, sta conquistando qualcosa per sé. E’ anche possibile, osserva Winnicott, che in una di queste fasi o sedute il paziente sia stato capace di essere solo per la prima volta. La bellezza dell’assunto di Winnicott sta nel legare la situazione transferale all’ontogenesi della capacità di essere soli. In effetti, anche se il saggio di Winnicott non riguarda in modo diretto la situazione analitica, ma il divenire capace di essere solo in presenza della madre (oggetto interno buono) da parte del bambino, è del tutto evidente che le due situazioni (ontogenetica e transferale) si lasciano meglio leggere nella misura in cui si illuminano a vicenda. Per altri versi la conquista della capacità di essere solo da parte del paziente, in quanto legata al silenzio, consente un confronto con quanto Fritz Perls, ne L’io, la fame, l’aggressività (1942), ha chiamato «silenzio interno».
Non manca, Winnicott, di ripensare il silenzio, in modo più specifico, in alcuni suoi interventi, tra i quali segnalo qui quelli raccolti in Psycho-Analytic Explorations (1989). Mi riferisco a Two Notes on the Use of Silence (1963), Postscript: D.W.W. on D.W.W (1967) e Interpretation in Psycho-Analysis (1968). Il punto fondamentale (che si armonizza bene con quanto già asserito ne La capacità di essere solo) è, da una parte, la relazione tra interpretazione e silenzio e, dall’altra, la creatività del paziente. Nel suo Postscript Winnicott, in polemica con Melanie Klein e il kleinismo, ricorda la propria vis interpretante (il proprio interpretare tutto quello che poteva essere interpretato) e il suo successivo approdo a un atteggiamento analitico nel quale interpretare a tutti i costi rischia di togliere spazio al paziente, di derubarlo della sua creatività e, in definitiva, della sua analisi. Qui l’accento è posto anche sul lascito di Fairbairn circa la necessità del paziente di sentirsi reale. Riportando il caso d’un paziente irritato per una sua interpretazione (per il fatto, meglio, di aver interpretato), Winnicott sembra anche far tesoro della posizione esplicitata da Melanie Klein nel citato caso clinico del 1941. Nelle sue due note sull’uso del silenzio Winnicott, poi, afferma di interpretare raramente e che l’analisi procede nel migliore dei modi proprio sulla base del suo non dire nulla. Dietro questo non dire nulla, comunque, sta l’assunzione teorica che l’analista sa bene cosa sta succedendo in analisi. Ora, appunto di questo si tratta, della relazione del silenzio col sapere. E qui Winnicott sembra ricalcare le orme di Ferenczi e Rank critici, nel loro famoso saggio del 1924, dell’eccesso di sapere dell’analista. L’analista osserva il silenzio perché sa e non interpreta, sacrifica il proprio sapere e la propria parola, perché possa darsi spazio per il paziente.