in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto
Perché nove? Per arrivare al “decalogo” potevo inserire La manipolazione, ma mi sembra che sia già contenuta nell’Onnipotenza; oppure mettere al decimo posto l’incapacità di interpretare i sogni, che è però da considerare più un bagaglio scontato del vero psicoanalista che un errore peccaminoso. Se non sappiamo entrare personalmente anche nelle porte della percezione di trance, siamo inabili a condurvi i Pazienti, e così se non abbiamo dimestichezza con i nostri sogni (vie regie all’inconscio, secondo la intramontabile definizione freudiana) non capiremo niente dei sogni dei nostri Pazienti e perderemo tutto il materiale che ci offrono per aiutarli. Ritengo quindi l’interpretazione dei sogni un postulato della psicoterapia e non un possibile peccato per chi l’ignora, una mutilazione che impedisce quasi ogni possibilità di successo o di cura. Eppure devo constatare per esperienza che esistono “psicoterapeuti” che non sanno cosa diavolo farsene dei sogni. In accordo con Lucrezio mi sembra che gli psicoanalisti inter se mutua vivunt. Gli psicoanalisti vivono gli uni degli altri, in condizioni di uguale sofferenza e di reciproco, necessario, aiuto. Siamo insomma tutti sulla stessa barca. Il rischio più grave che si corre è quello di trasformare il nostro lavoro in un vero inferno umano, e spero che questo mio “annoverare” (parola che deriva dal numero nove, dai numerologi definito il numero dei numeri) solo nove voci, più vicino alla simbologia dantesca che a quella sacra, possa rappresentare un modesto elenco, redatto da un compagno di strada e non da un giudice, per espletare il nostro compito psicoterapeutico su un terreno di libertà, lontani dalla paura e rivolti ad una felicità operativa “che intender non la può chi non la prova”. Riguardo a coloro che scelgono invece l’inferno psicoanalitico, non è perché qualcuno ce li ha mandati, penso solo che quello è il posto in cui hanno scelto deliberatamente di abitare.
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La noia è la nostra nemica più viscida. Se ci annoiamo con un Paziente dobbiamo capire perché, interpretare la cosa, valutare se è soltanto quel paziente che ci annoia, o dipende da noi che siamo annoiati del nostro lavoro o addirittura della vita. In questo peccato non ci sono mezzi termini: il nostro mestiere di analisti potrebbe finire qui. Esistono troppi racconti di psicoanalisti che si addormentano, che sono depressi, che appaiono svogliati ai loro pazienti. Quindi o la noia scaturisce da un rapporto particolare con uno o due Pazienti, e bisogna venirne subito a capo, comprendendo le ragioni della nostra emozione spenta, oppure dobbiamo interrogarci sul perché siamo annoiati svolgendo il lavoro più bello del mondo. È lecita la noia in tutti quei mestieri, ed ho profonda commiserazione per coloro che li svolgono, dove la motivazione è pari a zero. Non sto a citarli, perché mi assale una sgradevole malinconia, ma ciascun lettore o lettrice potrà pensare a quelli che gli mettono più tristezza. Per la verità forse non esistono in assoluto lavori noiosi, ma soltanto uomini e donne che svolgono noiosamente, per tartarughesca inerzia, questo o quell’altro lavoro. Quindi non si scappa: per definizione, il nostro è un lavoro nel quale non ci si può annoiare, o meglio, quando ci si annoia, è davvero divertente e intrigante e appagante, scoprirne le cause. Quando un Paziente segnalò a Freud il fatto che si era addormentato, mentre lui stava parlando, il Padre della psicoanalisi rispose: È vero, ma il mio inconscio era sveglio! …Lei mi stava annoiando!
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La Paura è figlia della Morte e lo psicoanalista che non sa giocare una partita quotidiana con la morte non può dirsi tale. Ho incontrato la Morte tre volte prima di incontrare la psicoanalisi, non prevedendo che da allora l’avrei incontrata quasi tutti i giorni nelle vite e nelle storie dei miei Pazienti. Un incidente stradale a circa 21 anni, dove mi sono salvato miracolosamente dopo essere finito con l’auto in un canale di acqua profondo e guadagnando a nuoto la riva, dopo aver abbandonato il veicolo quando si inabissava inesorabilmente; sono sopravvissuto nel 1985 al sequestro della nave da crociera Achille Lauro, (un evento che ebbe risonanza mondiale, tutti rischiammo di morire, e l’ebreo Klinghoffer fu ucciso) dove viaggiavo come medico di bordo e che mi ha ispirato la sindrome del Giudizio Universale, il mio primo scritto di psicoanalisi; mi sono addormentato mentre guidavo nel 1987, reduce da un incontro sentimentale assolutamente distruttivo, svegliato miracolosamente da un santo travestito da camionista, che mi lampeggiava furiosamente e suonava una benedettissima sirena fuori ordinanza che mi ha svegliato in tempo, pochi secondi prima dello scontro frontale. Fu allora che decisi di entrare in analisi, appena sbarcato dalla nave con sogni premonitori di terapia psicologica e strapazzato da un amore che amore non era, ma soltanto infatuazione da aspirante poeta maledetto per una ammaliante, bellissima strega malvagia e soprattutto squilibrata. Ho capito poi che la vera Morte si nasconde dietro la malattia psichica, dentro comportamenti inconsci che ci fanno credere di essere vivi, e invece sono soltanto mine nascoste di follia che non abbiamo saputo riconoscere e che ci hanno sgretolato il cervello. La paura è la nostra incapacità di mantenere e gestire un equilibrio, è l’ostacolo che non vogliamo affrontare per scioglierci dal giogo della schiavitù. Aiutare una donna ad affrontare e liberarsi di un marito violento; sostenere dei giovani che hanno famiglie spaventose e spaventevoli; risollevare un uomo che è in preda alla depressione; incoraggiare chi ha perso la stima di sé; riportare sui binari un giovane che delira; confortare e curare chi non ha più speranze; assistere chi è affetto da patologie organiche serie o esiziali: di questo non dobbiamo, non possiamo avere paura. Sentirsi liberi di aiutare a trasgredire, quando trasgredire o tradire vuol dire avviarsi alla libertà ed alla realizzazione di sé, imparare a dialogare con la diversità, politica, religiosa, sessuale, etica, affrontare la morte che si cela dietro la maschera di queste patologie. Questo significa non aver paura, perché lo psicoanalista, come abbiamo visto finora, è un cavaliere con qualche macchia, ma senza paura. Impariamo ogni giorno di più che il nemico più forte da sconfiggere insieme ai nostri analizzandi è la paura di vivere, e solo chi ha paura di vivere ha paura di morire. Lo psicoanalista è un nuovo eroe nato nel XX secolo che ha ancora molto futuro e tante battaglie da combattere. Soltanto con questa immagine mitica di riferimento potremo affrontare le disgrazie e i dolori che tormentano i nostri assistiti. Un papa, non ricordo più quale, era solito predicare semplicemente così: non abbiate paura, non temete di amare. Soltanto così la morte sarà una nostra cara amica e compagna di viaggio, anzi una sorella, come la definisce san Francesco, forse l’uomo più psicologicamente sano mai esistito, come affermò una volta il mio professore di psichiatria Leonardo Ancona. Ho citato un papa e un santo, e mi convinco sempre più che la nostra è una missione “laicamente religiosa”.
Abstract
In questo articolo l’autore, Amedeo Caruso, enuncia, forse per la prima volta nella storia della psicoanalisi, quelli che sono, secondo lui, i nove peccati capitali della psicoanalisi: Vita Privata, Menzogna, Attaccamento Infinito, Noia, Cupidigia, Paura, Seduzione, Onnipotenza, Ignoranza dell’Ipnosi. Se ne occupa come un compagno di strada e non rivestito dalla toga di un giudice, con un tono accattivante ed anche un po’ cattivo, severo, perché nella sua idea chi pratica la psicoanalisi deve essere un cavaliere con poche macchie e nessuna paura. Con riferimenti alla storia della psicoanalisi ed alla sua propria esperienza personale, condensa in nove brevi capitoli le insidie ed i pericoli del mestiere. Nessuna pena capitale viene comminata, però. Il rischio è soltanto la perdita dell’ars psychoanalytica, da lui definita il vero inferno del terapeuta.