Estratto da: I silenzi e la psicoanalisi. Rassegna bibliografica, a cura del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, coordinata da Giorgio Antonelli, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998.
La tesi di Cremerius (secondo la quale il fatto che una psicologia del silenzio non abbia trovato ancora una sua collocazione sarebbe dovuto alla scarsa penetrazione ferencziana, ovvero alla sua ancora scarsa influenza) è bene evidenziata dalla circostanza secondo cui, a occuparsi di una psicologia del silenzio, sono stati autori che si trovano in modi più o meno diretti sulla scia di Ferenczi, Balint, ad esempio, e, ancora, Searles e Masud Khan. Balint lo fa in particolare nello scritto Situazioni-brivido e regressioni pubblicato nel 1959 e ne Il difetto fondamentale, del 1968. Secondo questo allievo di Ferenczi il silenzio (problema che definisce estremamente controverso, «rompicapo») produce effetti antitetici e, in virtù di tale antiteticità, è capace di mobilizzare energie potenti e primitive.
Il silenzio non va inteso soltanto come sintomo di resistenza a materiale inconscio che proviene dal passato o dal qui e ora della situazione transferale. Per quanto ciò risulti quasi sempre corretto, lascia inevase le potenzialità creative del silenzio. Il silenzio va inteso, diversamente, come una possibile fonte di informazione. Il silenzio, aggiungerei qui io, vale dunque un’origine. Non soltanto fonte, nell’accezione «letteraria» del termine, ma origine, appunto, inizio. Il silenzio si lega all’area creativa (la terza area contemplata da Balint oltre a quelle edipica e duale). Se il silenzio si lega all’area creativa o a quella che Balint chiama del difetto fondamentale, occorre lasciare alla regressione il suo tempo e non forzare con l’interpretazione. A questi livelli la parola ha cessato di essere un valido strumento di comunicazione. L’analista deve accettare la regressione. Dal momento che Freud non l’accettava, si comprende bene perché siano passati molti anni prima che si potesse approdare psicoanaliticamente al silenzio.
L’interpretazione resistenziale è quasi sempre corretta. Tuttavia, sostiene Balint, se è vero che il paziente sta fuggendo da qualcosa (conflitto), è anche vero che sta correndo verso qualcosa (soluzione del problema). «Il qualcosa che alla fine produrrà, e che poi ci presenterà, è una specie di creazione, non necessariamente onesta, sincera, profonda o artistica, ma comunque un prodotto della sua creatività». Il contributo di Balint, da leggere in sequenza con quello di Ferenczi, mi sembra fondamentale nella misura in cui riconduce il silenzio a tèchne, arte, pro-duzione, creatività. Se fare silenzio non implica di per sé fare tèchne, tuttavia appunto di questo si tratta in analisi, di fare tèchne (anche) col silenzio.