in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto
La “sindrome del paradiso perduto” nasce da un miraggio, da un inganno fondamentale: dall’illusione della separatezza che fa sì che percepiamo noi stessi separati dal resto del mondo. La nostra epoca ha portato fino alle ultime conseguenze questa separazione tra l’ego razionale e l’unità primordiale tra Spirito e Natura intravista da Goethe ed è caratterizzata soprattutto da questa perdita, dalla perdita della participation mystique. Ciò significa che nella misura in cui sentiamo il nostro io, il mondo diventa “sdivinizzato” e riusciamo a comprendere soltanto la natura inanimata. L’Arte nel mondo greco aveva come scopo proprio quello di risanare questa frattura tra la nostra anima imprigionata e il perduto mondo degli dei e ridare vita a ciò che era morto per la coscienza abituale. Una specie di processo risanatore, un rituale per ritornare sani: era la Tragedia.
Se chiediamo a qualcuno di indicarci dove si trova la natura o a un credente dove si trova Dio, tutti punteranno il dito verso qualcosa fuori, fuori dalla porta, dalla finestra, o dalla città, non importa, fuori da sé stessi. Questo gesto esprime l’illusione, la percezione di base che in filosofia viene chiamata dualità e che segna la nascita dell’attuale stato di coscienza. Ma segna anche l’inizio, secondo alcuni, di tutta la sofferenza umana, e persino del suicidio dell’umanità. Questa obiettività, condizione primaria del metodo scientifico, esasperata, arriva persino all’eliminazione del soggetto stesso come sottolinea Edgar Morin. Oggi la meccanica quantistica e i nuovi sentieri della fisica moderna ogni giorno di più sottolineano questo equivoco fondamentale: la separazione tra l’uomo e l’universo è artificiale.
La psicologia transpersonale studia in particolare quegli stati di coscienza in cui la dualità svanisce e i vari metodi per attivarli. Le descrizioni di questi stati e dei vari mezzi per raggiungerli si incontrano in tutte le culture, i periodi storici e in tutte le civiltà, sotto diverse denominazioni ma sempre tra loro compatibili. Tutto questo indica che il nostro attuale stato di coscienza di veglia non è ancora sufficientemente dispiegato, nel senso che non ha ancora sviluppato le sue potenzialità.
Cosa non ha ancora raggiunto l’uomo, o cosa ha perduto? Per Steiner non si può comprendere la vita che pulsa con un pensare frammentato, con un pensare parziale. Ciò significa che con il pensare frammentato della coscienza individuale, con il pensare spiritualmente morto, possiamo comprendere soltanto ciò che è morto – la natura così come oggi ci si presenta sarebbe stata sentita dall’uomo dell’alba come il cadavere della natura. La forza del nostro pensiero deriva quindi dal cadavere dell’elemento animico-spirituale.
Secondo quanto esprime Steiner nella sua “filosofia della libertà” – soltanto “il pensare morto” può portare l’uomo alla libertà – ciò significa che soltanto da allora, soltanto da quando è presente il pensiero e quindi la morte, possiamo essere liberi. Ma, continua ancora il padre dell’antroposofia: possiamo procedere al di là dello stato di sonno-morte abituale e ridare vita alla nostra anima non nata attraverso l’inspirazione e il pensare immaginativo: possiamo ritornare vivi con l’immaginazione.
Goethe nel Faust fa dire ad una veggente: Amo chi aspira all’impossibile.
Trovo sorprendente che una visione così ampia e feconda sulla natura umana come quella di Steiner, non venga tenuta nella dovuta considerazione nell’ambito psicologico ufficiale, là dove si trovano i semi di molte successive elaborazioni di importanti concetti psicologici, come, ad esempio, quello di Anima-Animus o il processo di individuazione di Jung.
Dall’astrazione, o dal pensiero morto – il prezzo della nostra libertà quindi – nascono le leggi, le arti, le conquiste della scienza, l’etica, che secondo Balzac sono la Gloria e il Flagello del mondo: come Gloria, ha creato le società; come Flagello, esonera l’uomo di accedere alla Specialità (la Coscienza Cosmica, l’individuazione junghiana), che è una delle vie dell’infinito.
Se chiediamo a qualcuno di indicarci dove si trova la natura o ad un credente dove si trova Dio, tutti punteranno il dito verso qualcosa fuori, fuori dalla porta, dalla finestra, o dalla città, non importa, fuori da se stessi. Questo gesto esprime l’illusione, la percezione di base che in filosofia viene chiamata dualità e che segna la nascita dell’attuale stato di coscienza. Segna anche l’inizio, secondo alcuni, di tutta la sofferenza umana. Questa obiettività, condizione primaria del metodo scientifico, esasperata, arriva persino all’eliminazione del soggetto stesso come sottolinea Edgar Morin. In fondo alla sofferenza dilagante intorno a noi, troviamo in ogni essere umano la nostalgia di una felicità completa, assoluta, eterna che è simbolizzata nella genesi con il mito del “paradiso perduto”. Cerchiamo disperatamente la felicità fuori di noi stessi, sicuri che esista da qualche parte, in un luogo perduto: la cerchiamo, invano, nell’innamoramento, nel matrimonio, nel potere e nella ricchezza, nella droga, in una ideologia, nella religione. Questa sofferenza e questa vana e disperata ricerca di completezza viene definita in ambito transpersonale la “sindrome del paradiso perduto”. La “sindrome del paradiso perduto” nasce da un miraggio, da un inganno fondamentale: dall’illusione della separatezza che fa si che percepiamo noi stessi separati dal resto del mondo e sta alla base di quella che viene definita “la malattia dell’uomo moderno” che è la brama di potere nei confronti del mondo senza essere capace di diventare lui stesso il mondo. Un grave errore di valutazione, un “peccato” nel senso greco di “mancare il bersaglio” per il quale l’ego, invece che morire per “essere” tutto il mondo, finisce per gonfiarsi a dismisura nel tentativo di “possedere” il mondo. La nostra epoca ha portato fino alle ultime conseguenze questa separazione tra l’ego razionale e l’unità primordiale tra Spirito e Natura ed è caratterizzata soprattutto da questa perdita, dalla perdita della participation mystique. L’autrice in questo articolo analizza in particolare quello stato di coscienza definito Samadhi, nome sanscrito che etimologicamente significa “unione con Dio”, in cui la dualità svanisce e l’individualità separata viene dissolta. Nel samadhi la verità emerge attraverso la rinuncia a tutte le forme e l’accesso diretto al solo Significato, esperienza questa che di solito viene ritenuta un’unione con Dio e rappresenta il vero e proprio spartiacque tra la psicologia occidentale e i grandi sistemi psicologici orientali. La più radicale e più drastica di tutte le morti, la Morte che uccide la morte e apre le porte all’estasi e alla libertà di una coscienza più vasta, ci ricongiunge al paradiso perduto e va ben oltre le morti “minori” di aspetti parziali della nostra personalità che accompagnano il nostro percorso evolutivo. La “morte dell’ego” scuote tutti i punti di riferimento, sottrae la terra sotto i piedi e fa apparire all’orizzonte “il mondo degli dei”.