Tratto, con variazioni, da G. Antonelli, Schizzi genealogici psicofilosofici, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, aprile 2008
La filosofia, scrive Rovatti, non soltanto rifiuta la cultura terapeutica, ma si assume il compito di smascherarla, denunciarla, combatterla, il compito di svellere l’idea di malattia che va propagandosi, di mostrarne l’illusorietà, il trucco. Come aveva scritto la Schuster, sostenitrice della necessità per il consulente filosofico di una “dotta ignoranza sulla psicoterapia”, “i filosofi praticanti, come chiunque altro, devono piuttosto tentare di liberarsi dal fardello della coscienza terapeutica”. La cultura terapeutica è un trucco. La coscienza terapeutica è un fardello dal quale liberarsi. Si può anche ripensare la coscienza terapeutica come quel resto che ha originato, all’interno del mainstream filosofico, le pratiche filosofiche. Se questo fosse un legittimo sillogismo, il che non è, saremmo portati a concludere che le pratiche filosofiche si sono originate da un trucco, da un’illusione.
Antonio Balistreri pubblica Prendersi cura di se stessi. Filosofia come terapeutica della condizione umana. La filosofia è la forma della cura, cura che nulla ha a che vedere con la psicoterapia. “Nel pensiero” scrive Balistreri “l’uomo ritrova la terapia della vita, la cura nei confronti della sua condizione ontologica… La terapeutica filosofica qui consiste nell’esercitare gli uomini a condurre ragionamenti esatti e conseguenti da un lato, dall’altro a metterli in condizione di farne un uso pratico”. Ancora il discorso, un refrain anch’esso, della sola volontà kantiana?
Trent’anni prima Aaron Beck pubblica Principi di terapia cognitiva (Cognitive Therapy and the Emotional Disorders, nell’originale). La psicoterapia cognitiva si pone in una certa continuità con la seconda forza della psicologia, il comportamentismo, con la differenza (tra le altre e tra le non poche analogie) che il comportamentista mira a modificare i comportamenti, lo psicoterapeuta cognitivo mira a modificare le cognizioni. Se le radici filosofiche del comportamentismo, come scrive espressamente Beck, risalgono al diciottesimo secolo (in particolare all’empirismo di Locke), le radici filosofiche della terapia cognitiva rimontano per lo meno al tempo degli stoici “che consideravano le concezioni (o le concezioni errate) dell’uomo riguardo agli eventi come la chiave per comprendere i suoi problemi emotivi”. Sappiamo ad esempio che lo stoico Crisippo (III secolo A. C.) aveva concepito un libro sulla terapia delle passioni dell’anima (Il Terapeutico o, secondo altri, L’Etico). “Nelle nostre terapie” aveva scritto Galeno “ne facciamo ampio uso”. Le passioni (quelle dalle quali, nella prospettiva dei filosofi ellenistici, bisogna guarire e che nel linguaggio di Beck diventano gli emotional disorders) sono definite da Crisippo “giudizi” dell’anima razionale. Si tratta qui dell’anticipazione di una caratteristica fondamentale del sistema cognitivo di terapia: il contenuto di pensiero influisce sullo stato d’animo, il significato determina la risposta emotiva. Analogamente, di cosa soffre la maggior parte delle persone che avrebbero di lì a qualche anno chiesto una consulenza filosofica? Achenbach, il fondatore della consulenza filosofica, risponde: “di non sapere che cosa pensare della loro vita.” Nelle posizioni cognitiviste, da Crisippo a Beck, è ovviamente presente un’equazione socratica, equazione che ha improntato di sé una parte cospicua della tradizione filosofica. Sennonché già un discepolo di Socrate, Critone, aveva contestato il maestro scrivendo un non pervenuto, ma abbastanza eloquente Non si diventa buoni con la conoscenza. In campo stoico romano, del resto, anche Seneca sosteneva, contro i suoi maestri stoici greci, che non s’apprende la volontà (la quale ultima, però, è un conio romano, non greco). Lo stesso avrebbe sostenuto anche Hume. Viceversa, come abbiamo visto, per Spinoza, le idee adeguate non formano alcuna azione di male. La critica di Critone sarebbe riapparsa nell’Etica Nicomachea di Aristotele dove si legge che le cose giuste, belle e buone “non saremo per nulla più capaci di praticarle per il fatto di conoscerle”.
Nello stesso anno, a cura di Carlo Brentari, Romano Màdera, Salvatore Natoli e Luigi Vero Tarca esce Pratiche filosofiche e cura di sé. Il contributo di Neri Pollastri mette in chiaro, encore, che, come recita il titolo, la consulenza filosofica è pura teoria. Ciò significa che la sua pratica è inclusa nella sola teoria. E, dunque, “in essa non c’è alcuna intenzionalità pragmatica”. Rivendica inoltre, Neri Pollastri, il particolare statuto della consulenza filosofica nell’ambito delle pratiche filosofiche (i café philo inaugurati da Sautet, il dialogo socratico, la philosophy for children, il philosophical counseling, la clinical philosophy). “Tra le molte pratiche filosofiche” scrive “la consulenza è l’unica a essere interamente (puramente) filosofica”. Infine, e siamo al refrain consulenziale più ricorrente, “la consulenza non è necessariamente cura di sé”. Si tratta sempre di “salvaguardare questa pratica da un pericoloso scivolamento verso forme d’agire terapeutico, riconducendola a quella più propriamente e radicalmente filosofica”. La filosofia è la radice, insomma, il porsi originariamente, mentre la terapia è uno scivolamento pericoloso. Se lo è veramente, potrebbe allora valere, lo scivolamento terapeutico, quel pericolo bello che Socrate rivendicava davanti ai suoi interlocutori e alla loro paura che l’anima non è radice né origine, un semplice o complesso doppio, diciamo pure, come ogni trascendentale. Ancora una tautologia, un trucco.