Le immagini simboliche che emergono dalle nostre profondità interiori così come appaiono nei miti, riti e nei sogni, sono impregnate di energia vitale, di “sogni ad occhi aperti”, per dirlo con Mario Giampà e costituiscono l’essenza stessa della vita psichica. Non mi sorprende quindi che la psicoanalisi e in generale tutte le forme di “cura dell’anima” da sempre strizzino l’occhio all’antropologia, contenitore inesauribile di simboli ancora vivi, in direzione dei quali possiamo rivolgere lo sguardo quando perdiamo il senso e la direzione della nostra vita, per contattare la nostra fonte interiore.
Sconfinamenti, escursioni psico-antropologiche, a cura di Stefano Beggiora, Mario Giampà, Alfredo Lombardozzi e Anthony Molino (Edizioni Mimesis, Milano, 2014) è un libro dinamico e stimolante che ci trascina in un’area di confine tra psiche, sogni, riti e miti, intesi come espressione di un ordine primordiale contrapposto alla logica razionale dominante nella nostra cultura. La stessa espressione “incursioni psico-antropologiche” è emblematica della reciproca contaminazione tra queste forme di sapere e dell’urgente desiderio di integrazione.
Gli psicologi del profondo conoscono molto bene il potere trasformativo dei grandi simboli fondamentali tutt’ora viventi nei miti, nei rituali e nelle credenze dei popoli primitivi. Simboli e miti portatori di significato ed accesso privilegiato alle cose che ancora non conosciamo. Attraverso le descrizioni affascinanti ed a volte fantastiche che troviamo nel testo, veniamo trascinati all’interno della maloca, la casa comune del clan che in termini simbolici è l’Universo; sotto il suo tetto di paglia che è il cielo; nel mondo acquatico dei fiumi sotterranei o nelle acque oscure del fiume dei morti: spazi interiori a cui non pensavamo di poter mai accedere o di poter scrutare.
Punto di incontro tra le due discipline, il testo ci offre una visione multipla e variegata ed una ricchezza di immagini e di riferimenti simbolici dai quali attingere nella ricerca di nuovi strumenti, utili nella nostra personale (o collettiva) discesa nei labirinti dell’anima ed un ampliamento della nostra comprensione della natura profonda dell’Homo sapiens, una comprensione, appunto, psico-antropologica. Scrive Mario Giampà:
Per i popoli dell’Amazzonia i miti fanno parte della memoria collettiva e hanno il compito di fare rivivere l’identità del clan attraverso la dimensione del tempo mitologico che si sovrappone al tempo attuale. Per questi popoli annullare il passato delle tradizioni e dai modi di vivere equivale a cancellare elementi che costituiscono il proprio Sé. Al contrario, recuperarlo con un atteggiamento trasformativo e creativo, implica ritrovare, nelle proprie radici il senso del sacro: la linfa che alimenta l’anima umana.
Un’immagine che tocca l’anima può davvero risultare molto più potente ed efficace di qualsiasi discorso razionale. Come nel mondo primitivo, in un certo senso ancora oggi i “grandi antenati e i demiurghi” possono creare attraverso i nostri riti, miti e in particolare attraverso l’uomo che sogna, ad occhi aperti o chiusi, possono creare nuovi tratti culturali da aggiungere a quelli già esistenti, nuove idee, nuovi progetti esistenziali.
Nelle più svariate manifestazioni della sofferenza umana che chiamiamo psicopatologie c’è sempre una lontananza o una vera e propria scissione interiore, un venir meno del flusso di energia proveniente dalle profondità della psiche, con conseguente impoverimento della personalità: tristezza immotivata, paure irrazionali, visioni, allucinazioni etc., sintomi che nella nostra cultura vengono diagnosticati come nevrosi, psicosi o schizofrenie, in alcuni contesti primitivi sono considerati segnali che designano “la chiamata” o la vocazione dello sciamano. Durante i riti di possessione afro-brasiliani, per esempio, l’identità profana viene meno ed il credente assume, all’interno dello spazio rituale, l’identità di un Dio ed il corrispondente comportamento. Tutto questo risulta accettabile, condiviso e sopportato dal contesto culturale che favorisce così la connessione tra le immagini-affetto e la nostra coscienza/realtà nei momenti di crisi esistenziale, e la rimarginazione dell’antica frattura.
È proprio la caratteristica di “pozzo senza fondo” che rende il contesto mitologico particolarmente fecondo e determina il suo carattere salvifico: per l’uomo primitivo il mito, come il sogno, è qualcosa di dinamico e propulsivo e un ponte attraverso il quale l’uomo può trascendere la dimensione quotidiana e contattare quanto di più sacro esiste dentro di sé. In queste culture primitive sono ancora saldi i fili di comunicazione tra il mondo dell’anima (inconscio) e la realtà (coscienza) e i due mondi spesso si fondono e si confondono in un incessante dialogo con gli antenati e con gli Dei.
Lo sconfinamento si fa necessario ogni volta che vogliamo trascendere il nostro vecchio schema culturale di riferimento (il “paradigma newtoniano-cartesiano”) e la visione razionale-etnocentrica tipicamente occidentali verso una dimensione conoscitiva ed esistenziale molto più ampia. Ogni volta che sconfiniamo abbandoniamo le nostre rassicuranti definizioni ed i nostri limiti concettuali verso qualcosa che, prima ignoto, ora inizia ad appartenerci. È un momento estremamente fecondo di crescita e di apertura verso il Nuovo che solo un attimo prima bussava alla nostra porta.
Virginia Salles, www.virginiasalles.it