I racconti di Gorgia – Quando finisce un’analisi?

I racconti di Gorgia, in Rivista di Psicologia Analitica, 46, Roma, Astrolabio, 1992

Il fine dell’analisi, secondo il mio punto di vista, sta nella creazione di distanze dentro sé. Si tratta d’un fine al perseguimento del quale si rende necessario morire molte morti, così come, d’altronde, vivere molte vite. E ciò presuppone che in realtà non vi sia in una singola analisi, propriamente parlando, soltanto una fine, ma molte fini.

Ogni aumento di consapevolezza significa, per ciò stesso, una scissione. Se non siamo in grado di stabilire quando insorse nell’uomo l’autocoscienza, possiamo almeno affermare in base alla nostra esperienza, che è perfettamente in grado secondo me di ripercorrere quell’insorgere, che a tale evento sia corrisposto un trauma. Se infatti il trauma è ferita, una divisione in due dell’intero non può che essere traumatica nel senso fisico, prima, e poi psichico del termine. Fisico, certamente, perché l’aumento di consapevolezza “stira” il corpo, ne aumenta appunto le distanze, e fisico, anche, come eloquentemente dettano i miti dell’antichità e i racconti della cristianità primitiva e della cristianità mistica, miti e racconti cui da sempre attingiamo quando si tratta di confrontarci con la fenomenologia della trasformazione.

Lo “stiramento” della coscienza inizia quel processo di rinascita che Rank poneva quale fine ed esito dell’analisi. E mi sembra che lo stesso trauma della nascita sia in realtà rivissuto nello “stiramento” di cui faccio qui questione. Trauma della nascita che non causalmente, secondo Rank, sarebbe stato Socrate, riconosciuto dalla tradizione antica quale iniziatore del dimorare etico, il primo uomo ad aver superato, sia pure, come sottolinea Rank, “intellettualmente”.

La coscienza è scissione nel momento stesso in cui si costituisce come un “sapere con”. E ogni scissione è in principio percepita come un morire. Perché? Perché il “sapere con” spostando ai margini l’Io può apparire come destitutorio dell’Io. La creazione di distanze dentro sé implica un morire a un certo modo del sé e un rinascere a un modo del sé, diciamo, più stratificato. Ecco perché parlo di fine apparente, perché essa pone una fine apparente a tante di queste piccole morti. Piccole morti che, sebbene reali, possono non apparire.

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Giorgio Antonelli