Patrizia Nerozzi Bellman (a cura di), Alle origini della letteratura moderna. Testi di poetica del Settecento inglese: il romanzo e la poesia, Milano, Mondadori, 1998
Chi ha paura dell’immaginazione?
Guardinghi, a dir poco, nei confronti dell’immaginazione sono gli scrittori inglesi del sei-settecento. Si sa che i filosofi loro contemporanei intrattenevano della stessa pensieri non esaltanti. Sostanzialmente a memoria l’aveva ridotta Hobbes e Locke, dal canto suo, ne parlava in sospetta, patologizzante connessione con la follia e i folli. Si è ingenerata qui, tuttavia, una certa ambiguità. Perché, se è vero che l’immaginazione, diversamente da quanto avrebbero di lì a non molto pensato i romantici (Blake e Coleridge tra gli altri), era considerata alla stregua d’una facoltà passiva, appare altresì vero che, ad onta di tale passività, gli autori neoclassici sentivano la Wirklichkeit, la prepotenza di quella facoltà e avvertivano l’esigenza di irreggimentarla
Ciò appare evidente, ad esempio, nell’argomentazione che, indirizzata a Roger, conte di Orrery, Dryden premette a Le dame rivali del 1664. Nel decantare la necessarietà della rima il poeta ne parla quasi come di una diga, di una barriera contro la forza dell’immaginazione. Quasi si trattasse, in anticipo, di quella barriera contro la marea montante dell’occultismo di cui un Freud, dominato da Eros, avrebbe parlato a Jung. Il beneficio che Dryden addita come proprio della rima è appunto quello di delimitare e circoscrivere la fantasia (fancy). L’immaginazione (imagination), continua Dryden, e salta da un termine all’altro come se non avvertisse alcun bisogno di desinonimizzarli (il desinonimizzatore sarebbe stato Coleridge nella sua Biographia Literaria), è una facoltà selvaggia e sregolata che va frenata. Dryden, maestro con Pope della “poetic diction” e dell'”heroic couplet” (il distico eroico, ovvero due pentametri giambici rimati), critica in questo modo il “blank verse”, il verso sciolto, ovvero il pentametro giambico non rimato in uso presso gli elisabettiani e che sarebbe ritornato nel Paradise Lost di Milton, ad esempio, e in The Prelude di Wordsworth. Suo difetto sarebbe quello di far smarrire a chi lo usa il piacere della condensazione, di prendergli la mano, di allontanarlo dalla precisione del pensiero chiaro. Chiara l’influenza della Francia di Descartes e Boileau.
Analoghe considerazioni sulla preferibilità della rima e l’indesiderabilità del “blank verse” si ritrovano, oltre un secolo dopo, nella Vita di Milton di Samuel Johnson. Il quale contesta l’affermazione miltoniana secondo la quale la rima non costituirebbe un ausilio necessario alla vera poesia. Affermazione chiaramente armonica con la predilezione inconsapevole, inconscia (come avrebbe detto anche Blake), del poeta cieco per Satana. Se si ama Satana, consapevolmente o meno, non lo si può fare, sembrerebbe, che in regime di verso sciolto. Con i romantici la “poetic diction” viene ampiamente ridimensionata. Wordsworth, per primo, le si scaglia contro nella prefazione alle Lyrical Ballads giudicandola artificiale, lontana dalla vita reale. Il fatto che per le mutazioni metriche occorrano i lunghi periodi è degno di nota.
Altrettanto interessante sarebbe interrogarsi sulla equazione metrica di questa o quella psicoterapia. Tutto sommato, con il distico eroico o il verso sciolto, ci troviamo dalle parti del setting entro il quale avviene l’evento poetico. Ora, questo setting, stando a Dryden, è inteso nel senso del circoscrivere, del frenare, del controllare. Il plusvalore d’un tale operato è, secondo lo stesso poeta, la chiarezza del pensiero. Una volta posti i confini, i limiti, le regole, si suppone che possa essere agevolata la produzione di pensieri chiari, precisi. Nella Francia di Descartes, analogamente, si era pensato di sostituire il termine “immaginazioni” con “pensieri”. Il fatto che Freud non parli mai di immaginazione (Einbildungskraft), ma solo di fantasia, la dice lunga sull’inedita equazione metrica della psicoanalisi.
Anche Goethe del resto verseggiava il Faust rimando per coppie di versi. La supposizione che il setting instaurato dal distico eroico e dalla rima eliciti, catalizzi la precisione del pensiero, il farsi chiaro dei pensieri conserva una certa analogia con la preferenza accordata da Freud al termine “analisi”. A chi gli domandava perché non avesse operato la propria scelta in favore del termine “sintesi” Freud rispondeva che se c’era analisi, se si faceva analisi, allora la sintesi si sarebbe fatta da sé. Ora, che si faccia analisi presuppone che ci sia un setting, che un setting sia, silenziosamente, ipnoticamente, all’opera. Un’ipnosi non diversa da quella procurata dalle rime e dall’assommarsi all’effetto rima di quello prodotto dal ripetersi dei cinque accenti tonici propri del pentametro giambico.
Quando dai quartieri di Dryden e di Johnson, due dittatori letterari, si passa a quelli di Edmund Burke, l’autore d’un saggio sul gusto (1759) allora, per l’immaginazione, la musica inizia lentamente, apparentemente a cambiare. Per Burke l’immaginazione è un potere creativo (creative power) e, tuttavia, è incapace di produrre cose completamente nuove. Col che anche Burke finisce col rimanere sulla scia di Dryden e Johnson. Gli spunti offerti in sede estetica dagli scrittori del sei-settecento inglesi sono di notevole interesse e ben rappresentati in questa antologia dotata del testo originale con traduzione a fronte. Di particolare rilevanza sono le questioni che regolano la nascita del romanzo (novel) e il suo differenziarsi dai suoi precedenti (e anche contemporanei) medievali (i romanzi di Chrétien de Troyes ad esempio) e oltremedievali (il Don Chisciotte, ad esempio) (romance) nel segno d’una conquista progressiva della realtà. Questione, anche questa, non priva di ambiguità e che irradia non pochi rispecchiamenti con il suo corrispettivo analitico.
Anche in analisi, a ben vedere, si tratta di “novel” e “romance”. Un’opposizione che può utilmente essere ricondotta a quella stabilita da Freud tra verità materiale e verità storica (ma anche principio di piacere/principio di realtà) o ad analoghe prosecuzioni, ad esempio l’opposizione verità storica e verità narrativa raccontata da Donald Spence. “Che diamine, pensate che io stia scrivendo un romance? Non vedete che copio la natura?” scrive Samuel Richardson, il padre del romanzo epistolare, in una lettera datata 5 ottobre 1752. Il “novel” risponde al principio di realtà, il “romance” a quello di piacere, potremmo dire in altri termini. Ma si tratta pur sempre di termini troppo netti, privi di sfumature e che mancano proprio quello che pretendono di cogliere: il reale. Il quale sfugge, se ne sta altrove e gode di starsene altrove anche se di tanto in tanto si prende le proprie rivincite sotto forma, ad esempio, di trauma.
Nel passaggio dal “romance” al “novel” si dà “passe” d’interiorità e di qui e ora. Spazi e tempi s’introvertono. Il che accade in particolare in Samuel Richardson e in Sterne. Il quale traduce ne La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo l’associazionismo di Locke e preannuncia la “durée” di Bergson. Si badi bene al titolo, che fa da contrappunto a quello famoso di Defoe La vita e le avventure di Robinson Crusoe. Con Sterne sono le opinioni a prevalere. O, meglio, le vere avventure sono le opinioni. Siamo in pieno clima psicoprofondo. Non casualmente è con Sterne che ci imbattiamo nella junghiana sizigia animus/anima. Il che Jung viene casualmente a sapere per via epistolare. Il cammino è tracciato in direzione di Joyce e Virginia Woolf, dello “stream of consciousness” e del monologo interiore. Complice non indifferente quell’etica protestante che aveva fatto culto dell’autoanalisi.