Estratto da I silenzi e la psicoanalisi. Rassegna bibliografica, a cura del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, coordinata da Giorgio Antonelli, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998.
1926
Th. Reik, “The Psychological Meaning of Silence”, in The Psychoanalytic Review, 55, n. 2, 1968 (conferenza pubblicata originariamente in Wie man Psychologe wird, Int. Psychoan. Verl., 1927).
Nel contributo di Reik la questione centrale è già quella del silenzio dell’analista e dei suoi effetti sul paziente. La psicoanalisi mostra, secondo Reik, sia il potere della parola, sia il potere del silenzio. E’ appunto nella prospettiva della potenza del silenzio che può essere letto il suo contributo Nel centrare la questione sulla potenza del silenzio e sul silenzio dell’analista (ovvero transitivamente, sulla potenza dell’analista), Reik mi sembra collocarsi su posizioni di avanguardia in seno al movimento psicoanalitico. Di quella potenza in relazione ai suoi effetti, vengono in linea di massima distinti due stadi. Nel primo il silenzio dell’analista è rassicurante per il paziente, segnala ad esempio la profonda attenzione dell’analista nei suoi confronti. Nel secondo è in coincidenza col silenzio del paziente (qualcosa che egli non vuole dire o trova arduo dire) che il silenzio dell’analista cambia di segno. E’ a questo punto che il paziente, secondo Reik, si rende veramente conto del silenzio dell’analista, nel senso che gli conferisce un particolare significato. Stavolta, però, il silenzio dell’analista non «suona» più rassicurante. E, tuttavia, è in tale connessione che si dimostra l’effettività di quello che Reik chiama «il potere attivo del silenzio». Tale potere è attivo nella misura in cui elicita un vasto ventaglio di risposte da parte dal paziente. Il quale, dal momento in cui scopre il silenzio dell’analista, cerca di infrangerlo comunicandogli quello che egli ritiene l’analista voglia sentire. Ancora più potente diventa allora il silenzio dell’analista, dal momento che permane implacabile a dispetto delle comunicazioni del paziente. L’interpretazione che il paziente dà del silenzio dell’analista di conseguenza s’incupisce, assume le specie della negazione, della mancanza d’amore e come tale mette a nudo vissuti di colpa e castrazione. Dal momento che il silenzio continua, il paziente può essere condotto a desiderare la morte dell’analista. Appunto questo intende il paziente quando dice di sentire la grande distanza dell’analista. E, del resto, è ben presente a Reik l’antica equazione silenzio = morte, equazione che ritorna nella tesi di Freud secondo cui la pulsione di morte pulsa in silenzio. Il che Reik ricorda alla fine del proprio intervento, là dove parla del silenzio come d’un segno della realtà della pulsione di morte in contrasto col parlare inteso quale tentativo di conquistare la morte con l’aiuto delle pulsioni erotiche (di vita). E’ chiaro, scrive Reik, che il silenzio sia venuto prima della parola e che la parola sia sorta dal silenzio come la vita dalla morte.
Nella prospettiva d’una psicostoria del silenzio è interessante la considerazione svolta da Etchegoyen ne I fondamenti della tecnica psicoanalitica, testo, sia detto per inciso, nel quale non figura un capitolo specificamente dedicato alla questione del silenzio. Le osservazioni ad esso dedicate figurano, significativamente, in una sezione incentrata sulla regressione terapeutica. Etchegoyen rileva come il silenzio sia per Reik «un fattore decisivo per l’istituzione della situazione analitica». Ciò è dovuto al fatto che esso risveglierebbe nel paziente la coazione a confessare (tematica, questa, cui Reik ha dedicato uno studio specifico). Etchegoyen non manca di stigmatizzare la tecnica del silenzio di Reik. «Ciò che questo autore aggiunge senza dirlo» scrive «è la funzione di artificio che svolge l’analista che se ne sta in silenzio». Ora, appunto questa funzione d’artificio, presente secondo Etchegoyen in Reik, viene collegata a Menninger (autore d’una Teoria della tecnica psicoanalitica, pubblicata nel 1958) e, soprattutto, a Lacan e alla scuola lacaniana. «Menninger» scrive Etchegoyen «spiega la regressione nel processo analitico con ragionamenti simili a quelli di Lacan, cioè con le aspettative che si risvegliano nel paziente per il silenzio dell’analista». Quanto a Lacan, e alla sua scuola, il rigoroso silenzio nella situazione analitica che li caratterizzano ancora una volta opererebbe, nel giudizio di Etchegoyen, come un artificio. Della effettività, della felicità, della Wirkungsgeschichte di quest’artificio Etchegoyen non dice nulla.
Va rilevato, in sede di ricostruzione storica, che il nesso Lacan-Reik appare evidente nello scritto dello psicoanalista francese che reca il titolo Varianti della cura tipo. In esso Lacan fa esplicito riferimento al famoso scritto reikiano, debitore per il titolo a Nietzsche, Ascoltando col terzo orecchio, scritto nel quale si fa anche questione del silenzio dell’analista in termini che ribadiscono quanto già sostenuto nella conferenza del 1926. Per non parlare dell’undicesimo seminario, quello sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, nel quale Lacan parla di Reik come dello psicoanalista che sapeva sentire ciò che parla dietro l’inganno del paziente.
Qualcosa va detto, infine, sulla questione del controsilenzio col quale l’analista dovrebbe rispondere al silenzio del paziente. Ebbene, i termini con cui Reik propone la questione sono assimilabili a quelli con cui anche Ferenczi l’ha affrontata. Calogeras parlerà nella fattispecie d’una «costante» o regola del trattamento analitico praticata da molti analisti «fino a oggi» (l’articolo di Calogeras è del 1966). Non tutti gli analisti però si sono trovati in accordo con essa. E. Glover l’ha criticata già a partire dal 1928. In Analisi del carattere W. Reich ne parla come del famoso «silenzio analitico» in cui cadono quegli analisti che non sono in grado di controllare sufficientemente il proprio sadismo. Il loro nemico, scrive Reich, non è la nevrosi del paziente, ma il paziente che non vuole guarire.
1948
Th. Reik, Listening with the third ear. The inner Experience of a Psychoanalyst, New York, The Noonday Press, 1991.
Ritornano nel 12° capitolo di questo scritto («In the Beginning is Silence») le argomentazioni svolte da Reik nel 1925 e commentate da Bergler nel 1938. Va qui aggiunto che, per Reik, l’analista può fare con arte silenzio a condizione che non ne abbia paura. Tale argomentazione, già presente nella conferenza del 1926, ritorna nel contributo del 1964 di Nacht. Si potrebbe inoltre affermare, sulla falsariga dell’assunto reikiano secondo cui la psicoanalisi mostra la potenza della parola e la potenza del silenzio, che quest’ultima è tanto più pro-vocante (ovvero capace di elicitare materiale analitico) quanto meno l’analista ha paura del silenzio. Minore è la paura, infine, maggiore risulta lo spettro d’azione del cosiddetto «terzo orecchio» dell’analista (metafora, come sappiamo, ereditata da Nietzsche), terzo orecchio elettivamente capace di entrare in quella «zona del silenzio» nella quale si riversa il materiale rimosso.
E’ stato detto che quello di Reik rimane uno dei rarissimi contributi allo sviluppo delle interpretazioni che il paziente (si) dà del silenzio dell’analista nel corso del trattamento. Kurtz (1984) lo ha ripreso alla luce della distinzione tra silenzio declinato (tecnico, per così dire) e silenzio indeclinato (esistenziale, mistico, contenitivo). Nelle trasformazioni in cui incorre il paziente sotto il fuoco del cantus firmus del silenzio dell’analista, Reik legge il ritorno d’un sentire che a suo tempo aveva svolto un ruolo determinante nella relazione intrattenuta dal paziente con un antico oggetto d’amore (dalla tenerezza iniziale fino alla negazione effettiva). Kurtz nega tuttavia che la percezione iniziale che il paziente ha del silenzio dell’analista come benevolo vada mai perduta. Il punto debole dell’argomentazione di Reik è che per gli psicoanalisti della sua generazione il silenzio era percepito negativamente. Essi tendevano, secondo Kurtz, a identificare il silenzio con la resistenza o la morte e la parola con la vita.