Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica
(a cura di Alessandro Uselli)
Negli anni che percorrono la prima metà degli anni ’50, Karl Jaspers da alla luce una serie di contributi contraddistinti dal tema comune della critica alla medicina del suo tempo e di come la figura di medico esca ridimensionata in negativo dal progresso-regresso che la tecnica ha indotto alla disciplina medica e ai suoi esponenti.
Il medico nell’età della tecnica racchiude 5 saggi espressi dall’autore in quegli anni, nei quali emerge il cambiamento che la figura medica ha subito in seguito all’aumentare delle conquiste tecniche, a scapito di quella relazionalità che, secondo Jaspers, era e dovrebbe essere parte integrante della missione del medico.
Iatros philosophos isotheos è l’espressione ippocratica che Jaspers fa sua per palesare quella che dovrebbe essere l’essenza del medico. Testualmente: il medico che si fa filosofo diviene pari a un Dio.
Ma il progresso delle conquiste della tecnica ha appiattito l’essenza del medico sino a schiacciare la sua propensione alla filosofia: nell’età della tecnica l’esame obiettivo e il supporto della struttura tecnica hanno sovrastato l’ascolto, la cura basata sulla comprensione e sulla trasmissione animica.
Si è aperto dunque uno iato, uno spazio vuoto contraddistinto da un’arsura di relazione. In questo spazio, così necessario all’essere umano, ha trovato terreno fertile ove insinuarsi la psicoanalisi. Essa, in un certo senso, avrebbe fatto sciacallaggio dei punti deboli che si sono aperti nella medicina quando questa ha perso la sua componente relazionale; ma laddove il rapporto medico-paziente era caratterizzato da un ascolto empatico che traeva forza dalle sue radici doppiamente salde nel terreno dell’anima e della scienza, il rapporto terapeutico di stampo psicoanalitico diviene un esercizio di fede sottratto alla razionalità e comprensibile allo stesso modo di una qualunque religione.
Jaspers conduce simmetricamente le critiche rivolte alla medicina e alla psicoterapia, mostrando come esse siano intimamente interrelate, e come accada che dai disagi patiti dall’una tragga la propria forza l’altra: “Nella psicoanalisi l’uomo, nella sua libertà, diviene l’oggetto di un sapere presunto e di un trattamento indegno; nella pratica dell’intervento biologico, diretta al mero corpo e guidata dal pensiero della sua utilizzabilità come strumento di lavoro, l’uomo va perduto e distrutto”.
È il depotenziamento quindi della figura del medico che spiana la strada all’agire della psicoanalisi, la quale fa “ciò che i medici hanno sempre fatto, e cioè avere un atteggiamento umano con gli uomini e provocare imprevedibilmente al momento buono un cambiamento nelle situazioni o nello stato interiore del malato rivolgendosi a lui con la parola giusta”.
Tutto ciò “in tempi recenti, ai confini della medicina scientifica, è stato portato a consapevolezza, secondi metodi autonomi, sotto il nome di psicoterapia”.
Lo scandalo dell’età della tecnica è quindi, secondo Jaspers, quello di aver concesso la possibilità a una disciplina para-religiosa e quindi fideistica, di ergersi a scienza e di far suo un patrimonio che era sempre stato connaturato nel medico. I termini dell’autore sono inequivocabili: la psicoanalisi è “un dramma insensato, un minaccioso segnale delle omissioni avvenute da parte medica”.
Per portare a risoluzione lo stato delle cose, occorre che il medico torni a essere filosofo e si riappropri di quell’unione tra scienza e filosofia che Ippocrate poneva addirittura in termini trascendentali. Ma l’era di Illuminismo attuale crea oltremodo ostacoli a questo processo, essendo diventato incomprensibile cosa per l’uomo sia veramente importante. E ancora una volta si apre uno iato: “mentre le cose reali nel mondo sono divenute più chiare che mai, la realtà effettiva si è fatta oscura”.
Di fronte a una realtà che contraddice se stessa, proponendo tutte le cose del mondo come spiegabili e lasciando nell’intimo dell’animo umano un senso di inspiegabile smarrimento, oggi come sempre l’uomo è alla ricerca di un trascendentale che dia motivo al suo esistere. Nell’era della tecnica, la psicoanalisi assolve a questo compito: essa si inserisce appieno nell’epoca della scoperta scientifica, ma col suo velo di presunta scientificità cela la sua essenza che, per Jaspers, è assolutamente fideistica e adempie a tutti i canoni di un credo.
L’autore non esita a incedere in dettagli, per esempio esponendo la differenza tra la professione medica e quella psicoanalitica attraverso i requisiti dell’abilitazione: come faccio io ad abilitarmi come psicoanalista? Semplice: devo aver fede. È questa l’idea di Jaspers. Laddove il medico mostra di saper operare attraverso canoni oggettivi e replicabili, lo psicoanalista emerge dall’analisi didattica, la quale secondo l’autore è analoga agli esercizi spirituali.
Le contraddizioni di questa pratica, che Jaspers spiega bene, avvalorano la sua tesi dell’obbedienza quale requisito per operare psicoanaliticamente, e cita come esempio cardine la reazione di Freud al gruppo dei “disobbedienti” mettendola in termini di scomunica, in linea quindi con la sua tesi di un ordinamento dal sapore di setta religiosa.
Tale concetto viene a più tratti ripreso nel saggio finale che chiude il libro,saggio dedicato a Essenza e critica della psicoterapia.
La psicoterapia “può diventare il luogo in cui si surrogano la metafisica e l’erotica, la fede e la volontà di potenza, dove si ripercuotono pulsioni senza scrupoli. Nonostante le elevate pretese, può anche, in realtà, livellare l’anima e banalizzarla”.
È dunque una pratica persino pericolosa, dall’atmosfera nociva – seguendo sempre la terminologia dell’autore – nella quale si sviluppa un atteggiamento di vita egocentrico per cui l’uomo diventa misura di tutte le cose.
Essa inoltre ha dei limiti invalicabili, che Jaspers racchiude in 2 principali categorie:
a) non può sostituire ciò che solo la vita stessa apporta, il che equivale a dire ad esempio che il rapporto paziente-terapeuta non può sostituire né essere paragonato ai principali legami affettivi della vita dell’uomo, essendo di fatto concreto, limitato, teorico e vincolato a un’autorità.
b) non può mutare l’originario esser-tale di un uomo, ovvero il suo aspetto congenito, il suo immutabile. Può solo provare a render chiara all’uomo la sua natura, parafrasando la tesi di Nietzsche secondo cui a ciascun essere, a ogni infelice, a ogni malvagio, a ogni eccezione, appartiene una propria filosofia.
Soprattutto per quel che riguarda questo ultimo punto, Jaspers torna alla concezione di filosofia quale matrice germinativa del rapporto medico-paziente, dato che un compito tale non appartiene ne al punto di vista psicologico né a a quello medico, ma “all’atteggiamento fondamentale di un credo filosofico, in cui medico e paziente si trovino uniti”.
Si torna dunque così al concetto iniziale secondo cui l’unità tra medico e filosofo produce un’istanza deifica, nella quale “il medico non è ne un semplice tecnico, né solo un’autorità, ma un’esistenza per un’esistenza, un essere umano transeunte insieme all’altro” .
Un duo d’anime dialetticamente interconnesse che l’era moderna ha appiattito concedendosi sempre più al Deo della Tecnica.