Poniamo il caso che il nostro paese non vantasse alcuna tradizione culturale. Nessun Petrarca, nessun Fermi, nessuna Montalcini. Forse, allora, proporre una strutturazione universitaria in cui tre anni bastassero al conseguimento della laurea potrebbe essere considerato un incentivo per introdurre una qualche forma di interesse culturale in un popolo prossimo alla brutalità.
Bene, mi chiedo quale sia la pertinenza tra una formula aritmetica proposta come sistema universitario, e il nostro paese. Ma, ancor poi, quale sia il nesso tra un paese e un’Europa che, come vessillo, dovrebbero innalzare proprio la bandiera della cultura e la possibilità di ricevere un titolo – proprio quello che suggerisce che un percorso formativo è stato approfonditamente concluso – in solo tre anni.
E sebbene in periodo di “saldi” tutto sia lecito, anche di svendere il lasciapassare per una qualifica professionale, non ritengo sia possibile lasciare che anche il sapere, e il saper fare, vengano considerati come “formalità” da espletare, prima possibile e col minore impegno possibile. “Col minor impegno possibile” perché è il concetto stesso di cultura a essere totalmente stravolto dalla riforma in vigore.
Cultura è lasciar sedimentare la traccia di conoscenze che si stratificano col tempo. Che per la loro varietà di interessi costituiscono una piattaforma di base sulla quale la mente dell’individuo possa appoggiarsi e alla quale attingere. Perché interessarsi di letteratura, o di biologia, o di psicologia significa innanzitutto allenare la propria mente ad una visione del mondo. Imparare ad interpretare i simboli della realtà attraverso una griglia che, ben lungi dal consolidarsi e dall’irrigidirsi, acquisisca flessibilità proprio dalla continua interazione con esperienze e conoscenze nuove.
D’altro canto la strutturazione precedente – precedente alla “destrutturazione” – del sistema universitario teneva conto di questa semplice esigenza della mente: conoscere, attingere al vasto territorio delle competenze umane e delle sue creazioni, come base necessaria per la produzione di nuove. (Come dire senza memoria non si può progettare futuro).
Il triennio di base nel quale, in molte facoltà, si forniva una competenza su larga scala costituiva proprio il presupposto per una futura conoscenza specialistica. Poiché soltanto dalla conoscenza generale è possibile limitare il proprio campo d’azione per approfondire un particolare aspetto dell’argomento. Con l’attuale riforma tutta la formazione viene ridotta ad una semplicistica specializzazione settoriale che mina le fondamenta stesse del concetto di “cultura”. Ma, in fondo, non è questo che interessa gran parte degli studenti.
Interessa solo pochi di noi o di coloro che, con nostalgica ammirazione per una formazione culturale che sia innanzitutto formazione umana, non hanno abbracciato la nuova riforma come progresso della civiltà. Anche perché progresso non può dirsi ciò che diviene semplicemente più “facile”, che richiede minor impegno. Come se il fine ultimo della vita umana non fosse l’ampliamento della personalità, la crescita individuale, il sentire la propria anima riecheggiare ogni giorno di più di elementi nuovi e di vecchi compresi sotto una nuova luce.
Poiché sembra proprio che, invece, oggi ciò che conti di più sia proprio rendere ogni percorso più semplice, eliminare gli ostacoli, e abbassare la testa al potere come i professori che, tutti meno pochissimi, giurarono fedeltà al fascismo. E dimentichiamo, in questo modo, un elemento fondamentale per la maturazione di una personalità che sia innanzitutto consapevole della propria condizione di “uomo fra pari”: la crescita che deriva dalla sconfitta. Poiché cadere, fallire implica necessariamente un confronto con la realtà e soltanto questo silenzioso dialogo tra l’uomo e l’esterno può produrre l’avanzamento di una coscienza, che altrimenti resterebbe chiusa nella sua facile ascesa al potere. Invece dagli errori e dal sacrificio si impara ad essere “positivi” verso la vita. Non in funzione dei continui successi, ma in rapporto alla fatica e alla determinazione che ognuno trasfonde nel proprio lavoro, nel proprio studio, nelle proprie relazioni.
E’ per questo motivo che la tesi di laurea poteva essere un'”impresa” piacevole e allettante per l’individuo che potesse per la prima volta creare e dare corpo alle proprie conoscenze. E organizzare la frammentarietà della cultura in un tutto unico che rispecchiasse la mente dell’uomo. Questo però accadeva quando “sapere” significava anche avere voglia di “creare”.
Aldo Carotenuto
Pubblicato sul quotidiano “Il Messaggero”, “Prima pagina – Il caso”, 18 Gennaio 2002.