Una identità in maschera
Una identità in maschera

Nella vita si recita una parte, camuffandosi emerge il vero ”io”, non solo a Carnevale

La Repubblica 10/02/2002

 Vi sono maschere capaci di nascondere e dissimulare e ”maschere nude”. In grado di mostrare ciò la coscienza razionale spesso tiene nascosto sotto l’ingannevole difesa della negazione. Invece, attraverso la simulazione, attraverso un gioco da fanciulli -o un vezzo da adulti annoiati della vita- è possibile esprimere aspetti dell’animo inconfessati e inconfessabili; spesso tenuti a freno, ancor più di frequente ricacciati nell’inconscio.

Adesso, attraverso una semplice ”maschera” – solo una delle tante, una diversa rispetto a quella che ogni giorno indossiamo per incarnare il nostro ruolo sociale- è possibile aggirare la vigliaccheria e scimmiottare il coraggio. Il coraggio di diventare ”altri”, differenti da quelli che ogni giorno si aggirano per le strade, diversi da quelli che donano conforto alle proprie famiglie, stabilità ai propri figli, devozione ai propri superiori.

E per un giorno, o forse per qualche ora soltanto, si può lasciare andare ciò che nemmeno s’intuisce vivere sotto le mentite spoglie della quotidianità. Emergono nuove parti della personalità umana, quegli ”aspetti ombra” legati al mondo inconscio, fatto di oscurità e incertezze, di ambiguità e di ironici lazzi dello spirito. E ci si traveste, o si crede di farlo, mentre in realtà è soltanto la propria anima che sta emergendo utilizzando vesti simboliche.

Perché ogni aspetto, anche quelli più esteriori del nostro vivere, sono pregni di significati che vanno ben al di là della mera decodificazione percettiva. Anche un sorriso, allora, o la scelta di un colore o di un’inclinazione dello sguardo possono mostrare molto di più di quanto fosse nella loro stessa intenzione. E una maschera, un riproporsi in una veste totalmente diversa, rivelano molto. E se la mente comprendesse quanti elementi intimi e privati sta trasfondendo proprio in quella scelta, sarebbe ”troppo”.

Ma la maschera ”cela” prima che mostrare. Nasconde l’identità, o insinua il sospetto dell’ambiguità. E allora protegge; dal giudizio, come dagli sguardi intrusivi di chi ci conosce e, perciò, possiede delle specifiche aspettative nei nostri confronti.

É proprio attraverso di esse -attenzione- utilizzando richieste costanti e proiezioni specifiche che gli ”altri” finiscono col creare a loro volta una maschera, che, per di più ci sentiamo costretti ad indossare. Un’identità di ruolo viene creata per noi, un modo di presentarci e di interagire col mondo che crediamo ci appartenga, ma che inerisce molto di più l’esterno stesso. E che, se non siamo in grado di gestire con adeguata lungimiranza finisce col seppellire la nostra vera individualità, i nostri desideri, i nostri sogni, i chiaroscuri del nostro spirito. Allora una nuova maschera diventa l’unico modo per ricoprirci e sottrarci, in sostanza negarci.

Nascondendo, velando il nostro volto, essa, infatti, ci consente di sentirci più forti e di provare l’ebbrezza dell’invisibilità. Come indossando un anello magico, possiamo di colpo dissolverci e sentirci liberi di muoverci a nostro piacimento, indisturbati, attraverso il palcoscenico della vita. Un palcoscenico sul quale, mascherati più che mai, interpretiamo un ruolo, come diceva Oscar Wilde, simuliamo qualcosa. E non smettiamo mai di farlo né quando indossiamo la maschera per mostrarci né quando con essa vogliamo dissimulare il nostro sguardo.

Perché la personalità umana umana non è mai schiettamente manifesta, non si esaurisce nella sua espressione fenomenica. È varia e composita, fatta di luci chiare e decodificabili e di strade immerse nell’oscurità, attraverso intricati sentieri di rami e paure, di ombre e sospetti, di foglie ingiallite e ricordi mai sepolti. E si serve dell’apparenza come di abiti di scena che fungano di volta in volta a calamitare sguardi e attenzione su aspetti specifici dell’essere individuale. Su quegli aspetti che si vuole vengano notati e che risultano essere funzionali, o su altri, del tutto secondari, che traggono la propria valenza proprio dall’ingannare, dal volgere altrove lo sguardo dell’osservatore. Proteggendo, in tal modo, il nucleo centrale di sentimenti e pensieri.

La maschera, insomma -quella carnevalesca come quella classica del teatro latino- fornisce sempre un’identità. Sia essa fittizia e illusoria, del tutto fuorviante rispetto al vero volto che vi si nasconde, o illuminante e traditrice. Capace di raggirare l’intenzionalità, mostrando aspetti mefistofelici che ogni dr. Jekyll si guarda bene dall’esibire in pubblico. E, invece, attraverso un costume di scena l’uomo mostra la sua vera natura, senza nemmeno avvedersi dello scherzo che il suo inconscio sta attuando. O utilizzandolo con consapevolezza, sfruttando la sua potenzialità dissolvente per liberarsi di sé.

Per dare vita e voce, in altri termini, agli istinti taciuti e ai desideri misconosciuti; per dar un nuovo nome alla propria ambiguità. Alla propria ambivalenza, meglio, alla peculiarità fondamentale dell’essere uomini: la coesistenza di luci ed ombre, di bene e male, di costanza e intemperanza di desideri e giudizi, di trasgressione e quiescenza. In sostanza, ancora una volta, mascherandoci aggiungiamo un nuovo elemento a quelli che già esistono, diamo un nuovo aspetto a quanto già vive in forma impalpabile.

Ma l’uomo si sa ha bisogno dell’esteriorità, dell’apparire, più di quanto voglia ammettere; perché vedere diventi già comprendere, già sapere. E questo anelito incoercibile a mostrare è ben diverso dal desiderio irrefrenabile dei fanciulli di essere. Sentirsi vivere assumendo le sembianze delle maschere che si sceglie di indossare, non perché li aiuti a manifestare se stessi, ma perché attraverso il suo utilizzo, credendo di essere ciò che indossano, scoprono la loro individualità. Ma lo spirito dell’adulto che sceglie di indossare vesti non sue è ben diverso: è quello di chi finalmente osa, coperto da un semplice copricapo, mantenendo la propria immunità. Osa e ride, con la stessa soddisfazione di un personaggio invisibile.

ALDO CAROTENUTO

Nella vita si recita una parte, camuffandosi emerge il vero ”io”, non solo a Carnevale

La Repubblica 10/02/2002

 Vi sono maschere capaci di nascondere e dissimulare e ”maschere nude”. In grado di mostrare ciò la coscienza razionale spesso tiene nascosto sotto l’ingannevole difesa della negazione. Invece, attraverso la simulazione, attraverso un gioco da fanciulli -o un vezzo da adulti annoiati della vita- è possibile esprimere aspetti dell’animo inconfessati e inconfessabili; spesso tenuti a freno, ancor più di frequente ricacciati nell’inconscio.

Adesso, attraverso una semplice ”maschera” – solo una delle tante, una diversa rispetto a quella che ogni giorno indossiamo per incarnare il nostro ruolo sociale- è possibile aggirare la vigliaccheria e scimmiottare il coraggio. Il coraggio di diventare ”altri”, differenti da quelli che ogni giorno si aggirano per le strade, diversi da quelli che donano conforto alle proprie famiglie, stabilità ai propri figli, devozione ai propri superiori.

E per un giorno, o forse per qualche ora soltanto, si può lasciare andare ciò che nemmeno s’intuisce vivere sotto le mentite spoglie della quotidianità. Emergono nuove parti della personalità umana, quegli ”aspetti ombra” legati al mondo inconscio, fatto di oscurità e incertezze, di ambiguità e di ironici lazzi dello spirito. E ci si traveste, o si crede di farlo, mentre in realtà è soltanto la propria anima che sta emergendo utilizzando vesti simboliche.

Perché ogni aspetto, anche quelli più esteriori del nostro vivere, sono pregni di significati che vanno ben al di là della mera decodificazione percettiva. Anche un sorriso, allora, o la scelta di un colore o di un’inclinazione dello sguardo possono mostrare molto di più di quanto fosse nella loro stessa intenzione. E una maschera, un riproporsi in una veste totalmente diversa, rivelano molto. E se la mente comprendesse quanti elementi intimi e privati sta trasfondendo proprio in quella scelta, sarebbe ”troppo”.

Ma la maschera ”cela” prima che mostrare. Nasconde l’identità, o insinua il sospetto dell’ambiguità. E allora protegge; dal giudizio, come dagli sguardi intrusivi di chi ci conosce e, perciò, possiede delle specifiche aspettative nei nostri confronti.

É proprio attraverso di esse -attenzione- utilizzando richieste costanti e proiezioni specifiche che gli ”altri” finiscono col creare a loro volta una maschera, che, per di più ci sentiamo costretti ad indossare. Un’identità di ruolo viene creata per noi, un modo di presentarci e di interagire col mondo che crediamo ci appartenga, ma che inerisce molto di più l’esterno stesso. E che, se non siamo in grado di gestire con adeguata lungimiranza finisce col seppellire la nostra vera individualità, i nostri desideri, i nostri sogni, i chiaroscuri del nostro spirito. Allora una nuova maschera diventa l’unico modo per ricoprirci e sottrarci, in sostanza negarci.

Nascondendo, velando il nostro volto, essa, infatti, ci consente di sentirci più forti e di provare l’ebbrezza dell’invisibilità. Come indossando un anello magico, possiamo di colpo dissolverci e sentirci liberi di muoverci a nostro piacimento, indisturbati, attraverso il palcoscenico della vita. Un palcoscenico sul quale, mascherati più che mai, interpretiamo un ruolo, come diceva Oscar Wilde, simuliamo qualcosa. E non smettiamo mai di farlo né quando indossiamo la maschera per mostrarci né quando con essa vogliamo dissimulare il nostro sguardo.

Perché la personalità umana umana non è mai schiettamente manifesta, non si esaurisce nella sua espressione fenomenica. È varia e composita, fatta di luci chiare e decodificabili e di strade immerse nell’oscurità, attraverso intricati sentieri di rami e paure, di ombre e sospetti, di foglie ingiallite e ricordi mai sepolti. E si serve dell’apparenza come di abiti di scena che fungano di volta in volta a calamitare sguardi e attenzione su aspetti specifici dell’essere individuale. Su quegli aspetti che si vuole vengano notati e che risultano essere funzionali, o su altri, del tutto secondari, che traggono la propria valenza proprio dall’ingannare, dal volgere altrove lo sguardo dell’osservatore. Proteggendo, in tal modo, il nucleo centrale di sentimenti e pensieri.

La maschera, insomma -quella carnevalesca come quella classica del teatro latino- fornisce sempre un’identità. Sia essa fittizia e illusoria, del tutto fuorviante rispetto al vero volto che vi si nasconde, o illuminante e traditrice. Capace di raggirare l’intenzionalità, mostrando aspetti mefistofelici che ogni dr. Jekyll si guarda bene dall’esibire in pubblico. E, invece, attraverso un costume di scena l’uomo mostra la sua vera natura, senza nemmeno avvedersi dello scherzo che il suo inconscio sta attuando. O utilizzandolo con consapevolezza, sfruttando la sua potenzialità dissolvente per liberarsi di sé.

Per dare vita e voce, in altri termini, agli istinti taciuti e ai desideri misconosciuti; per dar un nuovo nome alla propria ambiguità. Alla propria ambivalenza, meglio, alla peculiarità fondamentale dell’essere uomini: la coesistenza di luci ed ombre, di bene e male, di costanza e intemperanza di desideri e giudizi, di trasgressione e quiescenza. In sostanza, ancora una volta, mascherandoci aggiungiamo un nuovo elemento a quelli che già esistono, diamo un nuovo aspetto a quanto già vive in forma impalpabile.

Ma l’uomo si sa ha bisogno dell’esteriorità, dell’apparire, più di quanto voglia ammettere; perché vedere diventi già comprendere, già sapere. E questo anelito incoercibile a mostrare è ben diverso dal desiderio irrefrenabile dei fanciulli di essere. Sentirsi vivere assumendo le sembianze delle maschere che si sceglie di indossare, non perché li aiuti a manifestare se stessi, ma perché attraverso il suo utilizzo, credendo di essere ciò che indossano, scoprono la loro individualità. Ma lo spirito dell’adulto che sceglie di indossare vesti non sue è ben diverso: è quello di chi finalmente osa, coperto da un semplice copricapo, mantenendo la propria immunità. Osa e ride, con la stessa soddisfazione di un personaggio invisibile.

ALDO CAROTENUTO

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L'autore
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Aldo Carotenuto
Aldo Carotenuto (1933-2005) Ha insegnato Psicologia della Personalità e delle Differenze Individuali all'Università di Roma