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Malinconia rima con poesia

11 Novembre 1999 (Il Messaggero) 

Troppo spesso si tende a dare alla malinconia un risvolto negativo, dimenticando che oltre ai suoi aspetti “patologici”, che la caratterizzano quale sinonimo della depressione, essa è anche uno degli stati più creativi dell’animo umano. Sembrerà un’affermazione paradossale, ma non sono rari i casi di artisti che hanno attinto a momenti di profonda prostrazione psichica per portare alla luce le loro opere immortali. Primo fra tutti Goethe, che per anni si confrontò con una “misteriosa” malattia, che altro non era se non quella depressione di carattere esistenziale che affliggeva anche il suo “giovane Werther”. 

È implicito, infatti, alla condizione del melanconico – per non usare il termine “depresso”, a mio dire fuorviante – il ritiro delle proprie proiezioni dal mondo esterno, a favore di una fase fortemente introspettiva, in cui si ricercano all’interno di se stesso le energie e le domande che effettivamente meritano l’impegno di una risposta. 

Il vivere quotidiano è indubbiamente un insostituibile serbatoio di esperienze, sebbene a volte la sua frenesia tenda a farci perdere di vista le cose veramente importanti, ma poi ogni uomo necessita di un momento di riflessione, di solitudine, attraverso il quale rielaborare l’accaduto, separare l’importante dal superfluo, individuare le esigenze che più gli stanno a cuore. È in quel momento che la nostra mente, una volta ricreato una sorta di vuoto esistenziale, partorisce le sue idee più brillanti. Stando cos’ le cose, allora, perché chiamarla “malattia”? Si dovrebbe quasi essere lieti di attraversare un momento di depressione. Ma le verità della psiche sono sempre complesse e ambivalenti. 

            Viviamo in un mondo in cui i nostri sensi sono continuamente sollecitati da luci, colori, rumori e quanto altro possa distrarre la nostra attenzione. Il clamore circostante è tale che, quando per una qualche ragione cessa, rimaniamo “assordati” dal silenzio. Molti non sono preparati a vivere la solitudine che tali momenti richiedono e, per loro, una fase di stallo più che una transizione può significare una capitolazione. Ecco, allora, che subentra la fase “patologica” della depressione: qual vago cercare che non conduce in alcun luogo, l’oblio del passato e l’indifferenza dinanzi al futuro, un presente che si dilata nella sua apparente inutilità, una persistente spossatezza fisica e mentale, l’incapacità di guardare altrove o di guardarsi attorno, fino ad arrivare a vere e proprie sintomatologie fisiche, come la fotoscopia, le vertigini o le famose disfunzioni epatobiliari, da cui veniva il nome di “umor nero” dato alla melanconia. 

            Tutto ciò può protrarsi all’infinito o, almeno, sembra destinato a farlo. Quel silenzio che poteva diventare una buona occasione per ascoltare la melodia della nostra anima, diviene invece un’assoluta mancanza di domande, un’attesa senza scopo. 

            Perché, dunque, l’incontro con se stessi per alcuni può risultare così annichilente? Presumibilmente perché non siamo abituati a guardarci dentro, perché gran parte della nostra esistenza è forzatamente rivolta all’esterno, ad accumulare beni materiali o soddisfazioni professionali, perché abbiamo necessità dell’apprezzamento altrui per sentirci degni di esistere. Dentro non resta altro che il vuoto di un’intimità mai coltivata e di una fiducia alquanto traballante. Lo stesso vuoto che come un vortice ci risucchia nella depressione. 

            Ma non dimentichiamo che, per l’anima, la malattia è in realtà una cura. La depressione non è il vero male, ma una soluzione a un male ben peggiore: un’anima troppo a lungo inascoltata rischierebbe, infatti, di morire. 

ALDO CAROTENUTO

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L'autore
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Aldo Carotenuto
Aldo Carotenuto (1933-2005) Ha insegnato Psicologia della Personalità e delle Differenze Individuali all'Università di Roma