Recensione del film “Transfert” – di Alessandro Uselli

Agli psicoterapeuti di norma non piacciono i film sulla psicoterapia. E a ragione.

Sono davvero poche le pellicole che riescono a rappresentare il “vero” di un incontro terapeutico senza annegare nel manierismo e far assumere al protagonista atteggiamenti che nessun professionista reale immaginerebbe di assumere.

Si può dire che Transfert, thriller psicologico e opera prima di Massimiliano Russo, inganni ad arte lo psicoterapeuta in sala, prendendo avvio proprio da una scelta di setting incondivisibile: il dottor Sofia, giovane terapeuta all’inizio della propria carriera, propone a due sorelle un percorso di terapia individuale da svolgersi col medesimo terapeuta, cioè lui. Come se non bastasse ne parla col suo supervisore, il quale gli sconsiglia questa strada ma alla fine lo lascia fare.

All’inizio del film, quindi, la china di disappunto è già massima: non solo si porta in scena un terapeuta narcisista, che imposta una terapia – anzi due – in un modalità fin troppo naif, ma si svilisce anche il ruolo del supervisore, figura che sappiamo essere invece di fondamentale importanza per non incorrere negli enactment cui il protagonista sta andando incontro.

Ma, come dicevamo, stavolta lo spettatore è volutamente ingannato, l’incipit serve a disorientarlo rispetto alla trama che da lì si comincerà a tessere, attraverso lenti deformate, l’ingresso di altri pazienti, il rinvenire di flashback e di immagini di un altro tempo dove un certo bambino di nome Stefano accompagnava in psicoterapia la madre.

Aggiungere altri dettagli pregiudicherebbe la godibilità del film, che in quanto thriller necessita l’abbandono dello spettatore alle maglie che lungo la visione diverranno sempre più fitte. Quello che ci preme sottolineare è che ci troviamo di fronte a un film giovane, indipendente, ma che ci lascia assaporare artifici di regia e sceneggiatura che ricordano opere del calibro di “Mulholland Drive” o le atmosfere de “Il sesto senso”. Il che se da una parte costituisce un azzardato e oneroso paragone, dall’altra non può che essere un motivo di plauso per il regista e il suo cast di attori. Non ci hanno convinto alcune parti, forzosamente complicate, e il destino un po’ manicomiale che si riserva alla malattia mentale. Ma il film risulta comunque un’opera originale, coraggiosa, che merita senza dubbio i premi che ha recentemente ricevuto.

Infine, la parte che più ci interessa: su cosa può farci riflettere questo film rispetto al “dangerous method” della psicoterapia?

In realtà su poco che non sappiamo già. Ma ci propone immagini molto profonde sui primum movens della psicopatologia e della scelta di divenire psicoterapeuti. Dimensioni che solo ad occhi ingenui possono apparire contrapposte, ma che invece lottano per una tensione armonica.

Chi fa lo psicoterapeuta ha forse risposto ad un bisogno antichissimo che diversamente sarebbe potuto diventare malattia?

Concentratevi su Stefano, quel bambino che accompagna la mamma dal dottore.

Buona visione.

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L'autore
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Alessandro Uselli
Specialista in Psicologia clinica e Psicoterapeuta. alessandro.uselli@gmail.com