Televisione

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007

Narciso è un homo videns. Il tèle, ovviamente, è il suo doppio. Dioniso, analogamente, è concepito da Persefone mentre la dea si guarda compiaciuta nello specchio. Dioniso, a sua volta, si guarda nello specchio (concepito da Efesto), si specchia nello schermo e vi vede apparire il mondo mentre alle sue spalle s’agitano minacciosi i Titani. Lo faranno a pezzi, come sappiamo, ma quei pezzi, come sapeva Olimpiodoro, siamo noi. Qualcun altro li avrebbe ricomposti. Apollo, che vede da lontano, un precursore di Freud. Una teoria di dèmoni, di doppi, di doppi demonici sfila nello schermo. Allo stesso modo dell’Eracle pensato da Omero l’homo videns gode del suo doppio, gode del suo doppio immortale. Senza ovviamente saperne nulla, è contemporaneamente al di qua dello schermo col proprio corpo e, al di là del corpo, dentro lo schermo.

Demoni e doppi sfilano nello schermo. Abdorrazzaq Lahiji pensava che esistessero luoghi epifanici in grado di fungere da interfaccia materiale con il mondo dell’immaginazione definita autonoma dopo Sinesio e prima di Jung, il mondo immaginale, che Sohravardi definiva anche delle forme sospese, delle forme on air potremmo anche dire. Nei luoghi epifanici che partecipano del mondo materiale le forme sospese possono rendersi visibili agli esseri umani. Per questo anche, sulla scia dei platonici di Persia, i teosofi d’Oriente, precursori della psicologia archetipica, ritengo sia conveniente parlare di un mistero del vedere, di un sacramento del vedere. Ai luoghi epifanici elencati da Abdorrazzaq Lahiji (corpi trasparenti, l’acqua, lo specchio, l’aria) possiamo senza dubbio aggiungere, quale ottimo nonché umbratile quarto, lo schermo televisivo.

Demoni e doppi sfilano nello schermo. Altrettante promesse di immortalità per l’homo videns, l’homo televidens che vi si specchia. Il motivo del doppio (l’Eracle duplicato di Omero, ma anche Jeshua Cristo etc.) Rank lo poneva in relazione con il Sé immortale nel contesto di un’equazione tra sovrannaturale e cultura. Dove si dà discorso di doppio, insomma, si dà discorso di immortalità. Nell’affermare che si esiste soltanto se si è in televisione, Carotenuto mostra di essere un compiuto epigono di Rank. Approdare allo schermo significa guadagnarsi immortalità. La stessa ragione per la quale, qualora non si possa accedere alla televisione, comunque si sceglie di entrare in uno schermo e allora ci si filma e ci si dà, filmati, in aereo pasto all’homo videns. Se ha ragione Rank di dire che l’uomo occidentale ha rimosso la morte, allora la televisione appare il dispositivo consequenziale di questa rimozione. Non regna la morte nelle Isole dei Beati, non regna la morte sullo schermo. Basta accenderlo e, voilà, siamo immortali, for the moment, assistiamo a défilés di immortalità, contempliamo un’aerea teoria di demoni. Quell’aria, che Diogene di Apollonia poneva a principio di tutte le cose è la stessa che Pitagora diceva piena di anime, demoni, eroi, gli esseri intermedi, popolanti il terzo stato, che inviano i sogni agli uomini.

Sullo schermo, che noi siamo, sfilano e, sfilando, ci attraversano immagini, dunque aerei doppi, demoni, eroi, anime, frammenti di immortalità, quegli stessi ceduti da Dioniso massacrato dai Titani mentre si guardava allo specchio. Approssimazione orfica, questa, alla concezione intrattenuta dal cabalista Luria di una contrazione di Dio e, in virtù di essa, di un far spazio al mondo, alla creazione. Se lo statuto del videre e dello schermo, nonostante noi siamo lo schermo in virtù del videre, sono state lasciate inevase, non si può ragionevolmente sostenere che sia andata meglio alle immagini, o come le chiamavano i greci (per quanto non soltanto in questo modo), agli eìdola. Democrito ha pensato la questione delle immagini in uno scritto di cui ci ha serbato una significativa testimonianza Plutarco. Il filosofo atomista, uno che si intendeva di vuoto e di aria, riteneva che piante, oggetti, esseri viventi fossero in grado di trasmettere eìdola, immagini, attraverso il corpo, di giorno e, oniricamente, di notte. Quel trasmettere Cavalcanti avrebbe ritradotto come un ferire. Democrito non si ferma a questa constatazione, che sarebbe stata sviluppata anche da al-Kindi nel De radiis dove sosteneva che viviamo in una rete di raggi, raggi che emettiamo a imitazione delle stelle e che anche gli animali e gli oggetti irradiano. Raggi che irradiamo e che ci irradiano. Perché l’angoscia d’influenza è, semplicemente nonché agonicamente, il mondo. Non soltanto, per Democrito, le immagini attraversano l’aria penetrando i corpi degli attraversati, ma lo fanno mantenendo inalterati tratti ed emozioni dei trasmettenti. Per questo Plutarco scrive, riferendo il pensiero dell’atomista, che gli eìdola parlano al sognatore, ma possiamo aggiungere: all’homo videns et televidens, come fossero esseri viventi. Questa potenza degli eìdola era stata compresa dagli antichi a tal punto, spiega Democrito, incognito precursore di Hillman e della psicologia archetipica, da indurli a ritenere che le immagini fossero dèi.

Le immagini sono dèi, serbano una dynamis, una potenza che, contro quanto sostenevano gli stoici, non può essere tolta. Le immagini sono dèi e gli dèi sono immortali. Le immagini sono dèi, non un vuoto trascinamento come voleva Crisippo. Nel mondo di Beautiful, analogamente, non esiste morte che non sia passibile di ridefinizione. Il meccanismo era noto a Dickens e contemporanei. Se un personaggio amato dal pubblico veniva fatto morire in un instalment di questo o quel romanzo (la serialità letteraria è il vero precursore della soap opera), poteva riemergere alla vita in un successivo instalment. Demoni e ninfe attraversano lo schermo, resuscitati, miracolati. Una delle due figlie di Stephanie Forrester muore, poi rivive. Lo stesso capita alla standing psichiatra Taylor. Demoni e ninfe, maschere e doppi attraversano lo schermo. Tutto ciò che un tempo fu rimane. Nulla è distrutto. Quello che è è e non può non essere. Parmenide avrebbe avuto di che rallegrarsi. Severino, che ne ha proclamato il ritorno, non ha pensato alla televisione come dispositivo parmenideo.

La resurrezione annunciata da Imeneo è Fileto, stigmatizzati da Paolo, è già avvenuta. Il medium è luogo di resurrezioni. Io le ho anche chiamate resurrezioni minori, pensando a Ibn Arabi, il principe dei mistici islamici. Ho citato Imeneo e Fileto pensando alla curvatura docetica dell’eresia gnostica, ovvero alla scelta, inaccettabile per l’eone cristianesimo, di concepire l’equazione immaginale della salvezza. Parlo di resurrezioni minori pensando allo statuto di semplice confine della morte. Parlo di resurrezioni minori pensando all’ottava delle proposizioni condannate dal vescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1277: “Quod Deum in hac vita mortali possumus intelligere per essentiam.” È per non aver attinto in via definitiva a questo regno in terra che Milton ha dovuto scrivere il capolavoro della disillusione che si nomina in un paradiso, in un godere adesso perduto.

La televisione è un docetico carnefice di messaggi e contenuti, è onnivora cioè di comunicazione, un coccodrillo perfetto, imago della Grande Madre, col suo invincibile schermo-seno ovvero schermo-stadio dello specchio al cospetto del quale chi vede è sempre in ritardo e rimane eternamente desiderante. La televisione è onnivora, ma nulla veramente muore tra i suoi denti. Tutto uccide dentro e nulla viene ucciso. Tutto è continuamente perduto e però tutto appare rimanere. Il medium che era in principio è beautiful. È bello il pericolo. Il pericolo di credere all’immortalità dell’anima e di andare, così credendo, incontro alla sparizione, dando spettacolo della propria aerea, troppo aerea immortalità.

Abstract

Il medium è il messaggio. Con la televisione lo spettatore è lo schermo. La televisione è la più spettacolare estensione del nostro sistema nervoso centrale. Queste le famose formule di MacLuhan, formule che qui sono sottoposte a contaminazioni religiose (Genesi, la mitologia orfica, il Vangelo secondo Giovanni, il cabalista Luria), filosofiche (Democrito, Aristotele, Al Kindi, Ibn Arabi) e psicoanalitiche. Centrale è il tentativo di stabilire cosa significhino “vedere”, “medium” e “schermo”, concetti nei quali resta un che di impensato. Relativamente al “vedere” si fa riferimento a due poeti forti della tradizione occidentale, Cavalcanti e Wordsworth, del quale ultimo viene analizzato il classico pezzo I wandered lonely as a cloud. Per quanto riguarda il “medium” viene presa in particolare considerazione la disamina che Bergson ha operato del concetto aristotelico di “luogo”. Infine, relativamente allo “schermo” vengono ridefiniti i costrutti psicoanalitici di “setting” e di “schermo del sogno”. Quale idea risulta da questa rivisitazione? Il paradosso di un luogo, il medium televisivo, che precede l’homo videns. È questo paradosso a costituire il fulcro del presente contributo.

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Giorgio Antonelli