in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto
Il mostro di Venezia (ci) colpisce ancora. Appena allagunati vediamo Bad, un polpettone documentario noioso e inutile, confezionato da una stella del cinema statunitense (supernero)americano, Spike Lee, quello di Fai la cosa giusta, per intenderci, ma questa volta l’ha fatta sbagliata. La pellicola è un tormentone di interviste ad amici e collaboratori della compianta rockstar Michael Jackson, ed è insopportabile la pesantezza dei dialoghi, la banalità delle domande, e l’ampollosità lacrimosa delle risposte, tutto un “come era buono, perfezionista, sagace, creativo!”, senza mostrare che qualche spezzone filmato del divo, scelto tra gli insoliti, ma anche insignificanti. Bad, “Cattivo”, è un titolo che si trasforma in giudizio lapidario. Vogliamo credere che Spike Lee sia andato in vacanza, mentre il film si girava da solo malamente. Ci rianima Fill the void (Riempire il vuoto) dell’israeliana Rama Burshtein, che descrive con meticolosa attenzione, e ammirevole eleganza, usi e costumi di ebrei osservanti. È una storia molto, molto tradizionale, lontana mille miglia di pellicola dalle cerimonie yiddish sarcastiche di Woody Allen. In una comunità ortodossa, che sembra uscita dalle due succulente raccolte di racconti Alla corte di mio padre e Altre storie alla corte di mio padre di Isaac Singer, accade un triste evento: una giovane moglie muore, pur dando alla luce il bimbo di cui è gravida. Ma dopo il dolore, dopo una breve sofferenza, bisogna “riempire il vuoto”, e si scatena una sarabanda di intrecci che porteranno la sorella più giovane della morta ad una soluzione che non riveleremo, mentre desideriamo lodare la bravura e la freschezza della stessa interprete Hadas Yaron, che si distingue per la sua recitazione naturale e disinvolta. Vincerà infatti la Coppa Volpi come migliore attrice, ma noi, che l’abbiamo incrociata cinque giorni prima della premiazione, ci eravamo già complimentati con lei, affascinati dalla sua recitazione, e le abbiamo carpito un segreto: la sua mamma è una psicologa! Riportiamo due perle psicologico-religiose di quest’opera: alla famiglia sprofondata nel lutto, il rabbino dice Chi soffre molto è molto vicino a Dio e, sempre per bocca dello stesso, Beato chi riesce a dire una sola parola di verità a Dio! L’ermetico dio del cinema ci conduce presto verso un altro film ebraico, Lullaby for my father di Amos Gitai, un ricordo affettuoso del regista per il padre, architetto del Bauhaus tedesco, sfuggito all’Olocausto, e riapprodato nella Terra Promessa. Si tratta di un film personale e tenero come una ninna-nanna, da cui il titolo. Ma la forza delle parole contenute nella lettera (in apertura del film), che la figlia del regista scrive al padre (il regista), resterà fortemente impressa nella nostra memoria, perché dipinge un ritratto duro, aspro e veritiero della gioventù contemporanea di tutto il mondo, descrivendone liricamente le difficoltà e le incertezze, la crisi di valori e le ansie professionali e occupazionali. Prima di questo lungometraggio viene presentata un’operina (22 minuti) di Liliana Cavani, Clarisse, che si svolge in un convento di suore, intervistate sul ruolo del femminile che prende i voti, e sui massimi sistemi della Chiesa, in modo smaccatamente retorico, dalla stessa regista, ormai lontana, anni Lumière, dall’ispirazione e intensità dei (due!) bellissimi su san Francesco d’Assisi, o Milarepa o I Cannibali, per citare i suoi film molto spirituali, e davvero riusciti. Ma si vede che con le suore il cortometraggio non riesce alle autrici italiane (bruttino era anche Per sempre di Alina Marazzi del 2004, sempre sulle monache, ma di clausura), e Clarisse non è capace di scuotere la nostra anima naturaliter cinematographica; ma essendo la produzione a carico dalla moglie di un certo predicatore catto-televisivo ex-molleggiato, la cosa ci fa temere una sua proiezione in rai e presso famiglie cristiane e luoghi vaticani, con finale distribuzione afilantropica di dvd clan-paolini. Voglio ricordare un amabilissimo documentarietto dell’agnostico Rossellini, quando rivisita i luoghi e i personaggi del suo Francesco, giullare di Dio, che forse le due signore hanno visto (?) svogliatamente, per far tornare la gioia della fede nel cinema. Insomma, la Cavani se la cava male come Spike Lee. Il giorno dopo è il turno di Kitano, che con il suo Outrage Beyond, non aggiunge niente ai suoi precedenti film sugli yakuza, ma riscalda solo una pizza già scongelata e ricongelata, indigesta. Preferiamo i suoi L’estate di Kikujiro e Dolls, che ci hanno ammaliati non troppi film (suoi) fa. Non facendo parte della giuria, ci regaliamo la visione restaurata di un gioiello del cinema, di Joseph Mankiewicz, Il fantasma e Mrs. Muir, del 1947, che è un piccolo capolavoro di interpretazione e dialoghi, tanto da sfidare coraggiosamente gli abissi del più sano sapere psicologico per saggezza, ironia e bellezza. Una triade di attori in stato di grazia, Gene Tierney, Rex Harrison e George Sanders, si miscelano in una storia imprevedibile e fantasiosa. Un film che ci piace pensare sia stato amato anche da Hillman, per la sua forza immaginativa. Dopo le crudeltà di Takeshi “beat” Kitano, siamo pronti alle atrocità di Kim Ki-duk, che vincerà il Leon d’oro, con questo Pietà, ma dobbiamo avvertire i cuori deboli e le anime tenere, che non esiste intrattenimento in questo film, trattandosi di una cruda lezione di anatomia patologica su cadavere, per una matricola di medicina istruttiva e necessaria, ma obbligatoria solo per futuri medici o critici di mestiere. L’amore materno è senza limiti, come è senza pietà la vendetta di un figlio abbandonato per una madre che lo ricerca trent’anni dopo, vuole dirci il regista coreano. Inoltre, in questo lavoro, risulta scottante il tema del denaro, su cui crediamo però che il Bresson de L’argent abbia detto quasi tutto, e perfettamente. Ma non torneremmo a rivederlo, neanche per pietà dello stesso regista, la cui storia personale è invece un compendio di psicopatologie artistico-umane, da studiare e interpretare dagli alienisti, mentre siamo pronti ancora alla re-visione di Bloody Mama di Corman, che tratta all’incirca la stessa faccenda, facendone un trattatello sull’Edipo molto più efficace e godibile, pure violento, ma insuperabile nella sua tessitura da tragedia greca. Se invece volete soffrire accomodatevi, e forse non ve ne pentirete. Sempre più convinti dell’enunciato hillmaniano che il cinema (e la letteratura, naturalmente …ma cos’è il cinema se non letteratura filmata, pagina scritta in sceneggiatura resa visiva?) sia a volte più rapido ed efficace a provocare cambiamenti e riflessioni, di quanto non riescano a far magari ore di analisi, ci consoliamo con un dolce film messicano, No quiero dormir sola, di Natalia Beristain. Questa giovanissima regista racconta del rapporto tra una anziana attrice e la nipote, con un gioco di rispecchiamenti e di ritrovamenti, che le vede litigare e scontrarsi, per poi riconoscersi l’una nell’altra, una senex ed una puella che poi non sono che due profili di un’unica persona, e si integreranno. Sarà mai distribuito in Italia? Ce lo auguriamo. Vedrete però presto sugli schermi, ne siamo certi, un dono serenissimo (come la città che ci ospita) che ci ha fatto Susan Bier, dirigendo Love is all you need, che è una deliziosa ma non superficiale, leggera ma non effimera commedia. L’aver visto tutti i film, un po’ come Mallarmé si vantava a proposito dei libri, ci ha obbligato a ripensare a quanti modelli abbia preso in prestito l’autrice e dunque citabili per questo brillante film, con dialoghi intelligenti ed ironici, e attori tutti perfettamente nelle parti, a cominciare dall’ex 007 Pierce Brosnan, che regge superbamente il paragone con Cary Grant e George Clooney, in film smaglianti del genere, cui strizza l’occhio. E allora, ecco gli archetipi del nostro: Che cosa è successo tra mio padre e tua madre (Avanti! era il titolo originale, molto più giusto e misterioso, mentre quello italiano doveva spiegare già tutto il film ai poveri abitanti dello stivale), sia per la trama che per l’ambientazione, ad Ischia per Billy Wilder, a Sorrento per la regista danese. E ancora Stregata dalla luna, cui ruba sfacciatamente e ripetutamente, la canzone di Dean Martin That’s Amore, ma anche certe atmosfere, e infine Monsoon wedding, per le sorprese matrimoniali. Eppure, nonostante questi sfacciati borseggi, il film è pieno di invenzioni e di simpatia, inclusa la morale dichiarata fin dal titolo (anche questo un furtarello, che mischia soltanto le stesse parole di una celebre canzone dei Beatles), che fa cadere in brodo di giuggiole tutti gli umani, psicoanalisti e pazienti inclusi. Anche questo film è barattabile, hillmanianamente, con circa cinque sedute di psicoterapia. Siamo riusciti a vedere un reperto archeologico di Peter Brook, restaurato, Tell me lies, degli Anni Sessanta, ripreso da uno dei suoi primi spettacoli teatrali, e non vi diciamo bugie se la sua carica pacifista è ancora vigorosa, basta sostituire il Vietnam con le guerre in corso oggi. Concludiamo con la Bella addormentata di Bellocchio, che è insieme uno splendido film politico, bioetico, poetico. È un quadro che va guardato con attenzione e trasporto, perché farà parte dei grandi film italiani di questo secolo, e che potrà raccontare davvero ai nostri figli come eravamo, e come potremmo cambiare, in politica, in bioetica e in amore.