Miller sul silenzio in analisi

Estratto da: Giorgio Antonelli, I silenzi e la psicoanalisi. Rassegna bibliografica, a cura del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, coordinata da Giorgio Antonelli, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998.

Jacques-Alain Miller, «Silet», in La Psicoanalisi 19, 1996. (Prime cinque lezioni del Corso tenuto al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nell’anno accademico 1994-1995).

Il silenzio lega l’analista e la pulsione. Silenzioso è il primo come silenziosa è la seconda. E si tratta d’un silere che è differente da un se taire, si tratta s’un «rimanere silenzioso come verbo attivo». Si dà, come s’è detto sopra, una relazione tra silenzio e godimento. Una relazione tra il silenzio e una soddisfazione di cui non si sa. Soddisfazione che non è indenne dalla sofferenza. Il sintomo stesso, infatti, è godimento, è godere attraverso la sofferenza. Ora, la tesi di Miller è che il godimento silet, rimane in silenzio, rimane attivamente in silenzio. Cosa si può dire di questo godimento che è il silenzio o che rimane in silenzio? Cosa ne può dire l’analista? Miller crede di riassumere la relazione tenuta da Lacan a Roma su Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi affermando che per l’analista, là dove si tratta di godere, non c’è niente da dire. Se però il sintomo è strutturato come un linguaggio, allora si tratta nel sintomo d’una parola che deve essere liberata. Miller ne deduce che l’opera dell’analista consiste nel rendere alla parola la sua funzione costituente per il soggetto. Ma allorché il soggetto si fonda sulla sua parola, non si fonda sul godimento. Il godimento non può fondare, può soltanto catturare. Ciò che fonda è l’io sono, non l’io godo. E, allora, quando Lacan sostiene che non bisogna interpretare le resistenze, «vuol dire che non bisogna interpretare il godimento». La freccia del godimento corre contraria a quella della verità. Il silenzio è quel godimento, che corre contrario alla verità del soggetto, e da cui va liberata la parola che costituisce lo stesso nella sua verità.

Stando così le cose non meraviglia che in ambito lacaniano si faccia tanta menzione di Reik. Tanto più che, per Lacan, esiste un effetto della parola cui non consegue il senso o la comunicazione. Esiste lalingua, la parola come godimento, il significante solitario, il significante che, non rimandando a un altro significante, ha funzione di godimento. E’ quanto appunto Reik ha sostenuto quando parlava di parola senza significato o di parola che verschweigt, passa sotto silenzio ovvero, con altro linguaggio, immette, mantiene, conserva nel regime del godimento, della distanza dalla verità, che è distanza dall’«io sono» e distanza dalla volontà di riconoscimento. A questa paradossalmente Reik opponeva il silenzio che parla. E’ nel segno di questa contrapposizione (e della importanza di riconoscerla) tra parola che passa sotto silenzio e silenzio «parlante» che Reik concludeva la sua conferenza alla Società psicoanalitica di Vienna il 9 gennaio 1926. Ed è forse possibile comprendere di qui, da questa contrapposizione che vale anche come rovesciamento, molto del discorso lacaniano sul silenzio.

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Giorgio Antonelli