Indro Montanelli e la sua provocazione: se la vita non è più vita, tanto vale farla finita.
Ci vogliono far vivere a tutti i costi: elisir di lunga vita, tecnologie avanzate e il divieto alla morte liberamente scelta. Se poi ci dicono anche come dover vivere, non ci resta più niente di cui preoccuparci, se non dei normali mezzi di sussistenza. Visto che quelli, chissà com’è, non te li regala nessuno. Montanelli, dall’alto dei suoi novant’anni, lancia un allarme:
«Cerco un medico disposto a farmi morire come e quando voglio io».
Immagino l’indignazione degli alti prelati, dal momento che quando scrissi le mie opinioni sull’eutanasia, nel libro “L’eclissi dello sguardo”, mi ritrovai contro l’intero ordine dei gesuiti. Difficile argomentare dinanzi all’idea che la vita è un dono sacro e che come tale va accettata e rispettata. A dire il vero, però, la Genesi racconta che la vita è dannazione eterna, in virtù della famosa cacciata dal Paradiso Terrestre.
Tuttavia credo che siano vere entrambe le cose: nascere è un dono, vivere è una dannazione. O almeno lo è fin quando ci ostiniamo a considerare la nostra vita solo ed esclusivamente come dono ed eredità di un altro. Un altro impersonale come la divinità o un altro in carne e ossa come i nostri genitori. Sta di fatto che questa implicita delega di responsabilità al destino che altri hanno creato per noi, ci induce a trascorrere la gran parte delle nostre esistenze senza una reale consapevolezza delle possibilità implicite al libero arbitrio.
Quella, ad esempio, di dedicarci alle nostre più autentiche inclinazioni, senza dover necessariamente ripercorrere i passi dei nostri padri o delle generazioni che ci hanno preceduto. Ma ancor prima, e più in generale, la possibilità di decidere cosa fare della nostra vita e quando e come porvi un termine. Dinanzi alla malattia, non c’è ragionevolezza o principio che tengano. Il dolore è una “ragione” molto personale dell’anima, la cui soglia di tollerabilità dovrebbe essere una scelta a discrezione del singolo. Personalmente, trovo crudele costringere un uomo a consumarsi in una lenta ed estenuante agonia, quando ormai il vantaggio secondario che può trarre da una simile esperienza è quasi nullo.
Generalmente, infatti, sono propenso a credere che nel dolore fermentino e si accrescano le potenzialità creative dell’uomo; poiché il dolore è come la spina nel fianco che, tenendoci sempre svegli, ci costringe a guardare oltre la soglia dell’abitudine. Ma è pur vero che affinché ciò accada deve esserci un orizzonte di speranza: la promessa di un superamento. Le malattie terminali purtroppo non offrono questa opportunità, se non su di un piano oltremondano. La vita dopo la morte. Ora non è questione di crederci o meno: indipendentemente dal fatto che esista o meno un proseguimento al di là della morte delle nostre esistenze, le risposte al dolore, di cui necessitiamo per renderci tollerabile un’agonia, vanno trovate in vita. Devono essere ascritte, almeno in un momento così cruciale, alla nostra responsabilità e alla nostra volontà; non a quella altrui. Se abbiamo potuto delegare ad altri le ragioni della nostra nascita, è difficile fare altrettanto con quelle della nostra morte.
Ancora una volta dobbiamo ricordare che il moralismo è una visione generale della vita, che non sempre collima con quella del singolo individuo. Una visione che, nel suo ideale di giustizia superiore, dimentica ciò che è giusto per la libertà del singolo uomo. Non si può passare tutta una vita a sopportare più o meno pazientemente le angherie, le frustrazioni e i dolori, pensando che ciò ci tornerà utile dopo la morte. Del dopo morte sappiamo ben poco, ma della vita abbiamo già tutte le indicazioni necessarie: la vita è qui e ora, e certe decisioni vanno prese con prontezza, senza deleghe.
So bene che questa mia posizione potrà suscitare perplessità e magari anche polemiche. Ma questa è la mia idea, fermo restando il più assoluto rispetto per chi la pensa diversamente da me, sia per ragioni religiose o meno.
Aldo Carotenuto
Tratto da “Il Messaggero” del 03/12/1999