Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura, 10, 2010 – Estratto
La capacità di vivere pienamente l’esistenza, in tutti i suoi aspetti fondanti, è da sempre legata al rapporto e alla consapevolezza che l’essere umano assume nei confronti della morte intesa sia come cessazione della vita in senso fisico, sia come elemento temporale e simbolico che esprime il termine di un dato percorso o processo.
Sigmund Freud nel 1915 scrive “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”2 all’interno del quale afferma che l’accettazione di ciò che violentemente ci strappa all’esistenza è il passo fondamentale che consente all’uomo di sopportare la vita stessa.
Per questo motivo “la fine” permea ogni psicoterapia, perché non si può avere una visione chiara della propria vita e degli obiettivi che vogliamo conseguire se non riusciamo a fare i conti con il limite e la dissoluzione delle possibilità.
Inoltre il padre della psicoanalisi (Freud, 1915) mette in evidenza che l’inconscio dell’essere umano si comporta come la mente degli uomini primitivi, i quali ritengono di essere immortali poiché non credono alla possibilità della loro fine; aggiunge, poi, che nell’inconscio non c’è spazio per tutto ciò che rappresenta una negazione e quindi anche per la morte che, certamente può essere pensata, temuta o augurata a terzi, ma mai realizzata.
All’interno del setting, analista e paziente, spesso si ritrovano a toccare i vissuti depressivi, l’esperienza del lutto (reale o simbolico), il desiderio di suicidio: le fantasie di morte che prendono in ostaggio la mente del paziente possono essere interpretate non solo come attivazione della prepotente pulsione di morte (Freud usa questo termine per indicare quella pulsione che, in opposizione alla pulsione di vita, tende alla riduzione completa delle tensioni, riconducendo l’essere vivente allo stato inorganico)3, ma anche come espressione di un intenso desiderio di metamorfosi (Carotenuto, 1997)4 dal momento che la fine di qualcosa coincide sempre con l’avvento di una trasformazione.
James Hillman, nel suo celeberrimo libro “Il suicidio e l’anima”5, sostiene che iniziare un percorso di “analisi significa morire” e questo perché, se il vecchio ordine non viene messo in discussione, e violentemente forzato, allora non ci può essere apprendimento dall’esperienza e quindi crescita.
Se il sintomo psichico è un malessere costante, che resta immutato nel tempo, costringendo l’uomo ad essere sempre eternamente uguale a sé stesso allora la morte, che secondo il filosofo Emanuele Severino è “l’assentarsi dell’eterno”6, può essere vista come quell’elemento catalizzatore in grado di scardinare l’infinità del disagio mentale.
Severino ha concentrato sul tema della morte gran parte del suo pensiero filosofico sostenendo che tutta la storia della filosofia è basata sull’errata convinzione che l’essere possa diventare “un nulla”: infatti se l’essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni pensiero, cosa, attimo sono eterni.
La tesi del filosofo bresciano è che la morte non esiste: secondo tale posizione le cose non nascono e non muoiono, ma appaiono e scompaiono.
In base a quanto detto sin ora emergono due aspetti caratterizzanti questa inquietante esperienza: il primo è che l’uomo, per poter sopravvivere, ha bisogno di sentirsi immortale rimuovendo la possibilità della propria morte psico-fisica; il secondo è che la morte è un principio costitutivo della vita stessa, infatti Freud ricorda che “la meta della vita è la morte”: seguendo il linguaggio dell’anima l’interpretazione di questo assunto può essere che un’esistenza piena ed autentica necessita l’incontro con la crisi, con la rottura delle certezze e quindi con la dissoluzione di un modo di stare al mondo privo di Eros (inteso come capacità di coinvolgimento positivo in tutte le espressioni vitali).
È questo dunque il motivo per il quale andare in analisi significa far morire una parte di noi stessi, a favore di una trasformazione d’anima creativa che non contempli, necessariamente, anche la morte del corpo.
Abstract
La capacità di vivere pienamente l’esistenza in tutti i suoi aspetti fondanti è da sempre legata intimamente al rapporto e alla consapevolezza che l’essere umano assume nei confronti della morte intesa sia come cessazione della vita in senso fisico, sia come elemento temporale e simbolico che esprime il termine di un dato percorso o processo. In ogni psicoterapia analista e paziente sono condotti a toccare la dimensione della fine che spesso è legata a sentimenti depressivi, all’esperienza del lutto ma anche al bisogno del cambiamento. In questo articolo, prendendo spunto dal libro di Tiziano Sclavi “Non è successo niente”, mi occupo della morte quale immagine del processo di trasformazione, mettendo in rilievo attraverso alcuni esempi clinici, come per il paziente sia sovente difficile accedere alla dimensione della fine, ineludibile preludio alla rinascita e al rinnovamento esistenziale.