Nella sua monumentale monografia sulla Novellistica (nella Storia dei generi letterari italiani, Milano, Vallardi 1924) Letterio Di Francia, parlando dei numerosi filoni, varianti ed intrecci della novellistica medievale, sceglieva come esempio significativo del tortuoso percorso che poteva avere un plot narrativo una storiella che noi possiamo leggere anche nel Decameron: la cosiddetta novella delle papere, incastonata nell’Introduzione alla quarta Giornata.
Di origine indiana, la sua prima comparsa in Europa si ha verso il sec. IX nella diffusissima Vita di Barlaam e Josafat, una rielaborazione cristiana della vita del Buddha. Qui un principe viene tenuto fin dall’infanzia nel più completo isolamento, e quando ormai giovinetto viene portato nel mondo, vedendo per la prima volta tante cose che ignorava, è colpito dalle donne e ne chiede il nome; gli rispondono che si chiamano demoni; e il principe dichiara che di tutte la cosa che più gli è piaciuta sono i demoni.
Era un exemplum su misura per quei predicatori che intendevano mettere in guardia dal fascino femminile i peccatori. Perciò con minime varianti nei secoli successivi lo ritroviamo nei Sermoni del vescovo Jacopo da Vitry, nel Fiore di virtù del benedettino Tommaso Gozzadini e nelle diffusissime opere dei domenicani Guglielmo Peraldo (Summa vitiorum), Vincenzo di Beauvais (Speculum historiale), Jacopo da Varazze (Legenda aurea) e Domenico Cavalca (Vite dei Santi Padri).
Si ritrova anche nella più importante opera di narrativa laica del sec. XIII, il Novellino, di autore anonimo, composto di un centinaio di brevi e succose storie. La quattordicesima è ottimamente riassunta dalla rubrica: Come uno re fece nodrire uno suo figliuolo anni diece in tenebrose spelonche [altrimenti, avevano detto alla sua nascita i “savi strolagi”, sarebbe diventato cieco], e come le donzelle gli piacquero sopra l’altre cose. Al giovane che ne chiede il nome si risponde anche qui che si chiamano “domoni”, e vi è l’immancabile misoginia nella riflessione finale del re: “Che tiranna cosa è bellore di donna!”.
La novelletta delle papere di Boccaccio – che diversamente da tutti gli antecedenti non ha una morale misogina – va contestualizzata nella polemica che nell’Introduzione alla quarta Giornata Boccaccio porta avanti contro coloro i quali lo avevano accusato : a) di essere troppo sensibile al fascino femminile; b) che alla sua età non stava bene andar dietro alle donne; c) che farebbe meglio a scrivere cose più serie; d) che farebbe meglio a pensare a guadagnarsi il pane; e) che le vicende raccontate nelle novelle, perlopiù asserite come realmente accadute, non sono andate come lui dice. Prima di rispondere alle critiche Boccaccio racconta la seguente storiella:
Filippo Balducci, un benestante della Firenze contemporanea, perse prematuramente la moglie assai amata. Decise allora di regalare ai poveri tutti i suoi averi e di farsi eremita su monte Asinaio assieme all’unico figlioletto. Visse così molti anni fra digiuni e orazioni, e col figlio si guardava di non ragionare … d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, … ma sempre della gloria di vita etterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandoli.
Il ragazzo ormai diciottenne chiese una volta al padre di accompagnarlo in città, dove si recava periodicamente a raccogliere elemosine. A Firenze il padre mostrava al giovane tutto quello che non aveva mai visto, palazzi, chiese ecc., e gliene diceva il nome. Passarono alcune belle ragazze che subito attrassero l’attenzione del figlio, il quale chiese cosa fossero e come si chiamassero. A cui il padre disse: “Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle son mala cosa”; e per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “ Elle si chiamano papere. ”
Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai piú alcuna veduta non avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ danari né d’altra cosa che veduta avesse, chiese di averne qualcuna. Il padre rifiutò, ma il ragazzo insisteva: “Meniamo una colà sú di queste papere, e io le darò beccare ”. Disse il padre: “ Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano! ” e sentí incontanente piú aver di forza la natura che il suo ingegno.” [Dec., IV Intro. 12-29]
A questo exemplum Boccaccio farà seguire la replica puntuale alle critiche di cui sopra. Ma restiamo per adesso alla novella delle papere.
Innanzitutto è da sottolineare l’utilizzo che fa Boccaccio delle fonti della letteratura religiosa, in particolare dei repertori ad uso dei predicatori di quaresimali. Nella famosa novella di Nastagio degli Onesti [Dec., V 8] troviamo un topos diffusissimo nella letteratura medievale, quello della caccia infernale, che i predicatori usavano per terrorizzare l’uditorio. Nello Specchio di vera penitenza, ad esempio, il domenicano fiorentino Jacopo Passavanti (contemporaneo di Boccaccio) raccontava di una donna nuda inseguita da una muta di cani e dal suo amante a cavallo – entrambi dannati – che con regolarità appariva e veniva sbranata dalle parti di Nevers (Borgogna). Una scena simile avviene nella pineta di Classe davanti agli occhi del ravennate Nastagio, innamorato infelice di una Traversari che non ne vuol sapere di lui. Il cavaliere infernale, dopo aver fatto strazio della donna, racconta a Nastagio di essere stato anche lui un innamorato respinto, e di essersi ucciso per questo; ora lui perché suicida e la donna – che si gloriava “come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato” [§ 22] – sono entrambi dannati a ripetere ogni venerdi l’orribile messinscena. Nastagio ha la brillante idea di far venire in quel posto il venerdi successivo la Traversari, la quale capisce così che non le conviene negarsi a chi la ama. A parte l’evidente parodia abbiamo qui, come nella novella delle papere, la morale corrente e il sesto comandamento capovolti.
Troviamo poi una significativa presenza del tema della morte. Anche se il programma della brigata dei novellatori che si allontana da Firenze è proprio quello di sottrarsi allo scenario funebre e luttuoso di una città in preda ad una terribile epidemia, nei racconti del Decameron la morte è tema ed eventualità ricorrente e funzionale alla struttura diegetica, nonostante il messaggio vitalistico che sembra insito nelle novelle erotiche e di beffa. Solo un esempio: in quella di Alatiel (II 7), la più eroticamente conturbante del Decameron per lo straordinario sex appeal della protagonista, ogni uomo – e sono tanti – che si accoppia con lei finisce ben presto brutalmente assassinato.
Oltre un certo numero di cadaveri, o di parti significative di essi (il cuore mangiato dalla moglie di Rossiglione [IV 9], il cuore ‘bevuto’ da Ghismonda [IV 1], la testa dell’amante recisa da Lisabetta da Messina [IV 5]), il Decameron presenta anche un caso di necrofilia, quello di un Gentile de’ Carisendi [X 4], vanamente innamorato di una donna sposata ad un altro. Quando ella improvvisamente muore, Gentile viola il sepolcro per giacersi col cadavere, e scopre mentre le tocca il petto che il cuore batte. La donna, riportata in vita, sarà restituita al marito.
Il binomio Eros e Thanatos è quanto mai in evidenza in quelle novelle tragiche in cui la perdita dell’amante è vissuta dalle protagoniste come un trauma insuperabile, un lutto non elaborabile, portandole all’immediato suicidio (Simona [IV 7] e le già ricordate Ghismonda e la moglie di Rossiglione), o a tentare il suicidio (Andreuola [IV 6], Costanza [V 2]) o a lasciarsi morire di dolore (Lisabetta da Messina). Si tratta di casi in cui per reazione traumatica allo stress della perdita abbiamo una fulminea metamorfosi del lutto in depressione, anche se a ben guardare nella decisione di Ghismonda e compagne non vi è quella ritorsione contro se stessi della rabbia destinata all’oggetto perduto per cui ci si uccide per vendicarsi dell’oggetto (S.Freud), e il loro suicidio rappresenta l’eroica protesta che incarneranno alcuni personaggi del titanismo preromantico.
Nella sua elaborazione del lutto Filippo Balducci, con la sua scelta pauperistica e ascetica di lunga durata (una parabola in controtendenza dell’epopea mercantesca), sembra la controfigura parodica di quelle eroine, e lo è certamente di quegli eremiti che avevano rappresentato il punto di forza di tanta agiografia medievale. Ritengo inoltre possibile che Boccaccio abbia voluto parodiare il celebre caso di Iacopone da Todi. Né mancano qui le parodie semantiche della lingua dei predicatori: “di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare là dove egli fosse d’alcuna temporal cosa”; “per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che utile…”
Diversamente dalla tradizione dei predicatori, i cui exempla erano caratterizzati da grande vaghezza del cronotopo, Boccaccio ha dato al suo personaggio un nome e un cognome riconoscibili nella Firenze contemporanea e ne ha tratteggiato realisticamente la biografia e la condizione sociale (Filippo Balducci è storicamente attestato come socio della compagnia dei Bardi cui apparteneva anche Boccaccino di Chelino, il padre di Giovanni). Dunque un benestante uomo d’affari dalla morte della moglie viene indotto a siffatta “grave devianza dall’atteggiamento normale verso la vita”, come recita la definizione freudiana di lutto; traveste con motivi morali l’insoddisfazione del proprio Io dandovi (inevitabilmente, si potrebbe dire data l’epoca) contenuti religiosi. Se il lavoro del lutto “è un processo di disinvestimento dall’oggetto libidico e di reinvestimento su altro oggetto” (S.F.), tale è la sublimazione ascetico-religiosa di Filippo Balducci.
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Fino alla composizione del capolavoro (per le opere successive al Decameron il discorso è un po’ diverso) Boccaccio ha sempre esaltato l’Eros e la naturalità degli istinti sessuali. Nelle storie tragiche di amori contrastati e infelici sono eroiche e pertanto apprezzabili quelle elaborazioni del lutto che portano alla tragica negazione di sé Ghismonda e le altre, chiaramente non lo è la scelta di astinenza del Balducci, aggravata dall’imposizione di essa anche al figlio.
Innegabilmente in questa novella il rapporto padre/figlio risente – come ha rilevato Federico Sanguineti (La novelletta delle papere nel Decameron, “Belfagor”, XXXVII [1982], 2, pp.137-46) – quello che era stato il rapporto Boccaccino/Giovanni. Si tratta di un tema ricorrente nelle sue opere, ora sotto travestimento letterario ora come testimonianza diretta. L’immagine paterna che ne risulta è negativa, a volte in modo acre e marcato.
Boccaccino è un padre che ha tarpato le ali al figlio, che gli ha fatto perdere gli anni della giovinezza in studi e attività a cui egli si sentiva negato, avendo già nel ventre materno una innata disposizione per la poesia. Ora non può più recuperare il tempo perduto, non può colmare le lacune della sua preparazione di base, sostanzialmente da autodidatta. A causa di ciò Boccaccio conserverà sempre un complesso di inferiorità nei confronti di un poeta laureato come Petrarca; non riuscirà a nascondere l’invidia per Zanobi da Strada, suo amico d’infanzia e poeta tutt’altro che eccelso, ciononostante incoronato a Pisa dall’imperatore Carlo IV in persona; sempre si sentirà uno sfigato (ad esempio in una lettera del 1348 si firma “il vostro GB da Certaldo ed inimico della Fortuna”; nel Buccolicum carmen, I 21, scrive : “Io sono un disgraziato che andrà a morire dove il destino vorrà” [trad. di Pier Giorgio Ricci]).
Sarebbe lungo enumerare tutte le figure paterne negative delle opere di Boccaccio, dal Filocolo, in cui re Felice si oppone all’amore del figlio Florio al punto da tentare di uccidere Biancofiore, al padre di Ghismonda. Addirittura nel nono libro del De casibus virorum illustrium giunge a travisare la storia quando racconta del contrasto fra l’imperatore Federico II e il figlio primogenito Enrico: questi avrebbe tentato di distogliere con buone parole il padre dalla sua politica prevaricatrice verso la Chiesa, e Federico l’avrebbe fatto gettare in prigione tenuto in condizioni durissime, dove morì di stenti o, secondo un’altra versione, si sarebbe suicidato. Nella realtà Enrico, sobillato da alcuni principi tedeschi, complottò per scalzare il padre dal trono e si ribellò apertamente nel 1235. Né le condizioni della sua prigionia furono quelle descritte da Boccaccio, ma come testimonia il cronista Salimbene da Parma, contemporaneo nonché fierissimo avversario di Federico II, visse agli arresti domiciliari in vari castelli e si suicidò durante una passeggiata gettandosi col cavallo in un burrone senza che i cavalieri che lo accompagnavano facessero in tempo ad intervenire.
La figura di Filippo Balducci è chiaramente quella di un padre castrante (che peraltro ha già castrato se stesso con un’astinenza trilustre), che per di più ha trasformato il lavoro del lutto in perenne lavoro in corso. La sua è una vedovanza al maschile che trova nel Decameron solo un altro esempio, quello del conte di Anguersa [II 8], un austero ma ancor piacente vedovo quarantenne che si trova nei guai dopo aver rifiutato le profferte della nuora del re di Francia che si era innamorata di lui. Viceversa le numerose vedove del Decameron (non parliamo poi di quella del Corbaccio), quasi tutte, non vedono l’ora di trovarsi un partner e riprendere i rapporti sessuali. Senza entrare nel controverso campo della filoginia/misoginia di Boccaccio e del Decameron, si nota comunque che al femminile l’elaborazione del lutto per la morte del consorte ha tutt’altro percorso con pertinente reinvestimento libidico. Per quanto riguarda la decisione del Balducci infine non sono da escludere un’ammissione implicita di impotenza e/o un vistoso senso di colpa, da espiare.
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La novelletta delle papere, che fa da premessa alla articolata replica del Boccaccio, chiaramente si riferisce solo alla prima accusa, quella di essere troppo devoto alle donne, addirittura di lodarle. L’autore non ha ritenuto di addurre altri exempla per quanto riguarda le restanti repliche, il che ci autorizza a pensare che la prima accusa fosse, appunto, la più importante o quella a cui era più sensibile.
Resta da chiedersi quali possano essere stati i motivi della scelta di questo exemplum e non di un altro per la dimostrazione della “naturalità dell’amore, vero cardine ideologico dell’intero Decameron”, come dice giustamente Giancarlo Alfano (scheda introduttiva alla citata nov. II 8 in G.B., Decameron, a c. di A.Quondam, M.Fiorilla e G.Alfano, Milano, BUR Classici 2013, p. 305). Un exemplum, voglio dire, in cui la forza insopprimibile dell’amore emerge in un contesto sepolcrale (padre e figlio reclusi per anni in una piccola celletta sopra monte Asinaio, in orazioni e in digiuni…). Come notava Sanguineti, il figlio rappresenta la Vita, il padre la Morte, ed è quest’ultima che Boccaccio vuole esorcizzare. E non era tema estraneo già al giovane Boccaccio, che nella Comedia delle ninfe fiorentine, elencando i benefici effetti dell’amore carnale, aveva scritto che grazie ad esso “fuggesi via la tema del morire / da chi vive altramenti assai sentita” (XXXIII, 32-33). Come dargli torto?
AUTORE: Giuseppe Toscano
Giuseppe Toscano, dopo un’esperienza universitaria durata un lustro, ha insegnato fino al 2011 nei licei. Si dedica prevalentemente alla storia e alla letteratura; dopo alcuni contributi su Verga e alcuni poeti contemporanei, ha in preparazione un saggio sul Decameron.