D’altra parte è possibile prevedere che un giorno o l’altro la coscienza della società si desti e rammenti agli uomini che il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più né meno come ha diritto già ora all’intervento che gli salverà la vita;e che le nevrosi minacciano la salute pubblica non meno della tubercolosi e, al pari di questa, non possono essere lasciate all’impotente sollecitudine dei singoli. (Freud, 1918)
Attorno all’universo delle psicoterapie, all’affascinante mondo dei simboli e dei significati, vi è un elemento di cui poco, e forse mal volentieri, si tratta: il costo economico della cura.
Pagare per essere curati, cosa che avviene sovente nell’ambito della medicina, assume un significato particolare in una cura che si fonda sulle rappresentazioni interne e sulla relazione tra clinico e paziente.
Il risentimento di cui il prezzolato luminare della medicina spesso si rende oggetto per il sacrificio economico a cui sottopone il paziente, si perde sullo sfondo allorquando il paziente, attenendosi più o meno scrupolosamente alle direttive del medico, vede alleviarsi o scomparire il patema per cui l’aveva contattato. Quando questo accade, il rancore per l’ingente spesa lascia spazio alla gratitudine e in alcuni casi a una devozione quasi divina verso il professionista che, ad onta del sacrificio economico, è stato in grado di “liberare dal male” il paziente.
La terapia psicologica se da una parte ricalca tale modello, nell’avvicinare una persona sofferente a un professionista che cura, da un’altra se ne distanzia radicalmente: il risentimento che al paziente può suscitare dover pagare la propria terapia (ma anche l’eventuale vissuto opposto) agli occhi del terapeuta segna già l’inizio della stessa: perché questa persona si adira nell’essere deprivata del suo prezioso denaro? Di quali fantasie sta investendo il terapeuta? Quale valore assume la gestione degli averi nell’omeostasi psichica di questo individuo?
Tali interrogativi, estranei a qualunque altro intervento in ambito clinico, sostanziano invece la cura psicologica, la quale si fonda sulla capacità del terapeuta di cogliere quegli aspetti di relazione che sono espressione del funzionamento psichico del paziente, di collegarli alla sua storia di vita e di utilizzarli in senso terapeutico nello scambio clinico che li mette in gioco.
Quello che accade nel setting assume quindi – lo sappiamo – un senso profondo che si distanzia dagli aspetti più mondani e esteriori, è questo il mood che caratterizza e rende unica la terapia psicologica.
Se torniamo quindi al costo economico di una psicoterapia, che come sappiamo a volte può prolungarsi per molto tempo e alternare stagioni di alleanza ad altre di rottura, capiamo che la questione dell’onorario costituisce uno di quegli elementi del setting che animano le dinamiche della cura. Comprendiamo in tal modo la ragione per la quale spesso si levino critiche verso situazioni in cui la terapia è gratuita: in questi casi, si sente sostenere che espellere da una psicoterapia l’aspetto del pagamento equivale a deprivarla di un importante elemento che sostanzia e dà valore al rapporto terapeutico. Non a caso è nota la regola per la quale la seduta che il paziente diserta senza un adeguato preavviso debba essere pagata ugualmente, e non mancano casi ancor più rigidi nei quali l’assenza del paziente, pur se preventivata e motivata, viene comunque fatta pagare quale onere per mantenere la propria ora, al dato giorno, nell’agenda del terapeuta.
Queste battute iniziali ci fanno comprendere quindi un dato: il pagamento è uno degli elementi centrali del setting, attorno al quale si tessono le trame del discorso terapeutico.
Un’altra questione di cui ancor meno si parla è la ragione economica che sta a fortiori nel terapeuta e che anticipa di molto l’arrivo del suo primo paziente, ovvero lo sforzo economico che egli per lunghi anni ha dovuto affrontare per portare a termine il suo training formativo.
È noto difatti che, soprattutto nell’ambito della psicologia dinamica, il futuro terapeuta deve affrontare dei costi non da poco per potersi formare alla sua professione: pensiamo all’analisi personale, alle sedute di supervisione, ai tanti seminari teorici cui ha l’obbligo di partecipare.
A maggior ragione quindi, malgrado l’aspetto monetario della psicoterapia – tanto per i pazienti che per gli allievi – non sia uno di quelli di cui più facilmente si parla nei simposi dedicati alla psicoanalisi, non si può non ammettere che l’intero edificio della terapia psicologica, fattosi decennio dopo decennio sempre più complesso e articolato, sia attraversato dalla questione economica in una misura forse determinante.
Abbiamo comunque sottolineato poc’anzi che l’aspetto del pagamento, lungi dall’essere la mera conseguenza di una prestazione fornita, nel caso della psicoterapia abbia una diretta conseguenza per la terapia stessa: il terapeuta si fa pagare anche perché sa che attraverso il pagamento la cura funziona meglio.
Ma a questo punto si apre d’obbligo una domanda: quanto farsi pagare?
Tale interrogativo, come in una sorta di labirinto, ci riporta purtroppo al punto di partenza, poiché sulla questione del costo della seduta si possono aprire ulteriori riflessioni: oltre a questioni di carattere per così dire formale – legate ad esempio all’età o al curriculum scientifico – con le quali il terapeuta valuta il valore della propria professionalità, si può ritornare a fare riferimento al mondo fantasmatico che avvolge l’analisi: se il costo della seduta è troppo basso, quali rappresentazioni si mobiliteranno all’interno del paziente rispetto all’analisi? Che l’analista non crede al valore del proprio lavoro? Che ha bisogno di rendersi popolare per accaparrarsi quanti più clienti? E se il paziente non deve operare uno sforzo per potersi pagare la seduta, come può l’analista valutare la sua motivazione a farsi curare e ancor di più affrontare quel meccanismo di difesa caro a Freud – e sempre valido – che è la resistenza?
Non di meno, se il paziente è uno psicologo o un medico con l’ambizione di formarsi come terapeuta, è forse a maggior ragione giustificata questa accortezza, al fine di formare un professionista che si sia misurato con sforzo con se stesso e la propria motivazione a far questo e non un altro mestiere.
Insomma, sembra di capire che la terapia si deve pagare, e per di più si deve pagare “bene”, se non ci si vuole privare di uno strumento cruciale per il divenire della terapia stessa, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. Se il pagamento della terapia non genera al paziente alcuna sottrazione, alcuno sforzo, potrà rendergli l’esperienza alla stregua di un qualsiasi altro diversivo e non gli restituirà il senso di responsabilità che occorre per operare un cambiamento alla propria vita.
La questione economica legata alla terapia è così importante tanto da essersi diffusa nella coscienza comune decretando l’idea corriva che la psicoterapia – e in particolare la psicoanalisi – sia una cura destinata a fasce abbienti della popolazione. E del resto come dare torto a questa idea? Se l’onorario del terapeuta a fine mese finisce col coincidere con almeno la metà dello stipendio del paziente, va da sé che non è possibile immaginare che la psicoanalisi possa essere appannaggio dei ceti meno abbienti.
Ora, a meno di non voler considerare come costituzionalmente “resistenti” tutti gli individui che non hanno avuto la fortuna o la possibilità di essere economicamente benestanti, non ci sarebbe che concludere che buona parte della psicoanalisi ha voltato lo sguardo nei confronti di pazienti o allievi che, per ragioni economiche, non hanno potuto investire in un trattamento pluriennale a più sedute settimanali. E purtroppo in questo tipo di conclusione bisognerebbe ammettere che c’è del vero: il rimprovero che più volte è stato rivolto agli analisti, di essere chiusi in una torre d’avorio, avulsi dal contesto sociale, ritirati in un microcosmo non rappresentativo della complessa diversità umana e sociale, è troppo spesso stato verificato. Molte potrebbero essere le ragioni che spiegano il venirsi a creare di questo atteggiamento nella giovane storia del movimento psicoanalitico, un approfondimento che sarebbe necessario all’interno delle più antiche società psicoanalitiche non meno che nelle giovani scuole. Anche perché, come molte volte accade, la storia prende un corso diverso rispetto alle intenzioni degli iniziatori.
Più volte si è sottolineato come l’ortodossia del mondo psicoanalitico freudiano (e non solo di questo) si allontanasse dallo spirito dello stesso Freud. Questa affermazione, come per altri aspetti del setting e della terapia, può essere vera anche nei riguardi dell’aspetto economico, basti ricordare che il celebre “uomo dei lupi” fu rianalizzato da Freud del tutto gratuitamente dopo essere caduto in miseria, e per di più il padre della psicoanalisi fece in modo che egli ricevesse per un certo lasso di tempo un indennizzo economico a fronte dei meriti che il suo caso aveva fornito allo sviluppo della psicoanalisi.
Ma questo lascerebbe a Freud soltanto il merito di una sua personale sensibilità che è invece sensato ipotizzare abbiano avuto più volte anche molti degli analisti venuti dopo di lui e molti anche dei nostri giorni.
C’è invece una pagina della storia del movimento psicoanalitico, una pagina ignota ai più, in cui sotto l’approvazione dello stesso Freud, la psicoanalisi fece sua la preoccupazione che la terapia psicologica potesse essere alla portata anche delle persone meno abbienti, in un sistema che coniugava la cura dei pazienti alla formazioni dei nuovi terapeuti, nonché alla diffusione e all’approfondimento del metodo psicoanalitico.
Si tratta del Policlinico psicoanalitico di Berlino, un’istituzione nata negli anni venti e distrutta dall’avvento del nazismo, la cui memoria oggi ricompare, come le ceneri dell’araba fenice, grazie a degli appassionati analisti[1] che hanno tradotto e divulgato questo importante documento nella convinzione che esso potesse illuminare la via in un nuovo periodo di crisi come quello attuale.
È difatti sui postumi della “Grande Guerra” che il policlinico prese l’avvio, sotto la spinta del fatto che, come aveva sostenuto Freud, il tema non poteva essere lasciato alla sola sollecitudine dei singoli.
Nel lavoro del Policlinico Freud identificava lo svolgersi di tre funzioni significative:
innanzitutto rendere accessibile la nostra terapia a quelle grandi masse di uomini e donne che, sebbene non soffrano meno a causa della loro nevrosi di quanto soffrano i ricchi, non hanno tuttavia la possibilità di affrontare le spese di un trattamento; in secondo luogo offrire una sede in cui possa essere impartito l’insegnamento teorico della psicoanalisi e le esperienze degli analisti più anziani si trasmettano agli allievi ansiosi di imparare; infine perfezionare le nostre conoscenze delle malattie nevrotiche e la nostra tecnica terapeutica, applicandole e verificandole in condizioni nuove [2]
In sintesi: clinica, didattica, ricerca. Un proposito rivoluzionario, che svela una delle pieghe più ignote e delle sfide più avvincenti del movimento psicoanalitico.
L’idea della psicoanalisi come cura e formazione elitaria, nonché come sapere che non mette mai in discussione se stesso, viene smentita da questo documento.
La statistica dei pazienti trattati al policlinico di Berlino vedeva in numero maggiore i disoccupati, seguiti dagli impiegati, dagli studenti e dagli artigiani. Fasce di popolazione svantaggiate ieri come oggi, e che proprio oggi difficilmente prenderebbero in considerazione l’ipotesi di un trattamento psicoanalitico, considerati i costi che, non a torto, si sono fissati nell’immaginario collettivo. Al contrario, gli analisti del tempo affermavano quanto segue:
riguardo all’onorario, seguiamo il principio che il paziente paghi il massimo che è in grado di pagare; l’ammontare di questo massimo è definito dall’autovalutazione del proprio reddito da parte del paziente [3].
E in taluni casi – scandalo nello scandalo – i pazienti venivano trattati a titolo gratuito dagli analisti della Società Analitica Tedesca, che così contribuiva al mantenimento del Policlinico.
Gli allievi, lungi dall’essere una “merce” da sfruttare e a cui riconoscere una formazione vuota di esperienza clinica, erano lo snodo cruciale del funzionamento del policlinico: la loro formazione prevedeva oltre che l’analisi personale e i seminari teorici, il confronto diretto con la clinica e il tutoraggio da parte di analisti esperti che eseguivano le cosiddette “analisi di controllo” ovvero quelle che oggi chiameremmo supervisioni cliniche. Attraverso questo sistema poteva essere garantito anche ai pazienti meno abbienti di poter beneficiare di un’analisi, mentre gli allievi si confrontavano col terreno cruciale della clinica, sotto l’ala protettrice di un’analista esperto che fungeva da mentore per l’allievo, e indirettamente anche per il paziente.
Ai giorni nostri i candidati analisti si fanno sempre di meno, spaventati dai tempi e soprattutto dai costi di una formazione che rischia di non garantire un’adeguata ricompensa professionale e talora dalla sensazione di poter essere incistati in un vacuolo autistico fuori dal tempo, in una formazione che rende esangue l’allievo per poi fargli scoprire un mondo diverso da quello studiato all’interno della società analitica di appartenenza.
La rinuncia alla formazione analitica presenta però un contraccolpo non indifferente per l’universo mondo della psicoterapia, specie nel nostro paese. Se vero è che le società analitiche vanno via via perdendo potenziali candidati, dall’altra parte si assiste a un proliferare di scuole di specializzazione di ogni tipo che, seguendo programmi molto spesso opinabili, si prefiggono di rendere all’allievo nel minor tempo possibile e coi costi più contenuti, la “patente” di psicoterapeuta.
Ora, il nostro punto di vista non è quello di affermare che la psicologia dinamica sia “la via” e che tutto quello che si distanzia da essa sia da rifiutare: la nostra convinzione è che la psicoterapia si basi primariamente sulla clinica, le cui tematiche sono le stesse per tutti i terapeuti.
È però valido per ogni scuola, a nostro parere, l’impianto formativo che la psicoanalisi ha promosso, ovvero un modello che si basa soprattutto sull’esperienza clinica – come paziente e come terapeuta – effettuata dall’allievo.
Qualunque aspirante terapeuta potrà diventare realmente tale solo se si sarà confrontato con la realtà viva della seduta terapeutica, se si sarà confrontato con le dinamiche emotive del paziente, con i sentimenti che egli stesso sperimenta nel corso della seduta e che gli indicheranno aspetti importanti, talora sconosciuti, di se stesso. Questo principio vale tanto per un terapeuta di orientamento psicoanalitico, quanto per un terapeuta cognitivista, quanto per qualsiasi altro.
L’allontanamento progressivo dalla matrice psicoanalitica ha invece lasciato spazio a scuole e istituti di formazione basati sulla semplice esperienza didattica e su esperienze cliniche di poco rilievo, che producono una messe di terapeuti, oggi più che mai imponente, che spesso arriva ad avere in mano il titolo di terapeuta (potremmo dire, senza troppa ironia, la “licenza di uccidere”), senza essersi mai confrontata nel rapporto col paziente.
Sono temi di importanza cruciale, che investono la politica della psicoterapia. E la politica, lo sappiamo, conosce nella questione economica una delle correnti che maggiormente la attraversa.
Il Policlinico di Berlino nasceva da una crisi profonda, dai postumi del primo conflitto mondiale. I tempi che attualmente attraversiamo sono connotati dalla lacerazione sempre più incalzante dei vecchi punti di riferimento e da una crisi economica il cui effetto più serio è quello di far appassire il desiderio e di spegnere l’immaginazione. Questo sentimento fu quello che spinse i pionieri a concepire l’idea di una psicoanalisi che crescesse e si mettesse in gioco attraverso un franco dialogo con il sociale, uno scambio basato non sul mero tornaconto economico, ma primariamente sul piano del benessere individuale e dell’amore per la scienza.
Oggi assistiamo a un paradosso apparentemente incomprensibile: molte persone hanno bisogno di psicoterapia, tanti – forse troppi – sono gli psicoterapeuti, ma le due realtà non si incontrano.
La questione del costo della cura, in un periodo contraddistinto dalla crisi, e un mercato della psicoterapia resosi sempre più caotico, sono due delle ragioni che, a nostro parere, concorrono a produrre questo fenomeno tanto paradossale quanto, per molti aspetti, tragico. E per quanto il modello proposto dal policlinico di Berlino possa apparire un’opportunità da riattualizzare oggigiorno, pensiamo che ci vorrà molto impegno e che non sarà facile che esso possa essere accolto favorevolmente dalle istituzioni psicoterapeutiche, preoccupatesi sempre meno negli anni di un confronto diretto con la comunità allargata e la società civile; né purtroppo da molti psicoterapeuti, che spesso per un meccanismo noto in psicologia quale “identificazione con l’aggressore” finiscono per identificarsi col modello della loro comunità di riferimento, di cui in un primo momento furono “vittime”, perpetrando quello stesso sistema che a suo tempo essi stessi avevano subito.
La speranza di Freud che lo Stato e le istituzioni pubbliche un giorno si facessero carico del bisogno collettivo di terapia psicologica è tuttora disattesa. Ma l’esperienza del Policlinico di Berlino ci permette di vedere quali orizzonti possono delinearsi sotto la guida di uomini appassionati, capaci di anteporre un’ideale alla logica del profitto.
Al di là dell’aspetto economico e forse anche di quello scientifico, ci si potrebbe chiedere a cosa debba mirare una terapia psicologica. Il discorso da cui eravamo partiti riguardava l’importanza del pagamento come elemento specifico del setting; abbiamo presentato un modello poi, tanto antico quanto attuale, che prevedeva un costo che tenesse in conto le possibilità diversificate di ogni paziente. E abbiamo oltremodo sostenuto che la comunità degli psicoterapeuti dovrebbe partire non tanto dai modelli teorici, quanto dalle questioni che emergono dalla pratica clinica; e, infine, che uno psicoterapeuta veramente “formato” è un clinico che ha imparato nel setting e dal setting, e non uno scolaro che per un lasso di tempo ha seguito con costanza e diligenza i corsi che gli venivano proposti.
A nostro parere una psicoterapia, di qualunque orientamento teorico, a una o tre sedute settimanali, con il lettino o con la poltrona, dovrebbe avere come obiettivo generale e aspecifico quello di rendere l’individuo autonomo, quanto più questo è possibile per quella data persona. Un terapeuta che di questi tempi impone a un giovane – paziente o allievo che sia – un onorario insostenibile di fatto lo renderà dipendente dalla sua famiglia. Il suo compito non dovrebbe consistere nell’opposto?
Un terapeuta che col suo onorario non consente a un individuo la possibilità di investire il suo denaro in qualunque espressione del desiderio che via via nella terapia si potrà liberare, lo avrà di fatto privato di un’autentica possibilità di guarigione.
Il mondo interno con le sue rappresentazioni, le sue fantasie, i suoi fantasmi, e il transfert, che il setting e la relazione terapeutica rendono possibile, non dovrebbero far dimenticare che la realtà si colloca sempre tra il profondo e la superficie, tra l’interno e l’esterno, e che se esiste l’uno è sempre in funzione dell’altro. La capacità di tenersi in equilibrio tra queste dimensioni e leggere le sfumature della situazione terapeutica in una modalità aderente alle molteplici realtà che ci sono attorno possiamo chiamarla allo stesso modo di quel principio che Freud per primo ci ha insegnato: il principio di realtà.
[1] Gazzillo G., Fontana A. (a cura di), Psicoanalisi in tempi di crisi (2011), Borla, Roma