Può la crisi rappresentare una risorsa?

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto

“Investire in spregio della biosfera” – dice Latouche. Muovendo il suo ragionamento da argomentazioni scientifiche, l’economista francese rileva che la teoria economica neoclassica (a parte i richiami di Malthus già nel 1800) riteneva che la produzione non incontrasse alcun limite rappresentato dalla finitezza delle risorse. Sappiamo oggi, viceversa, che il processo di rigenerazione della biosfera, non può integralmente ricostituire quanto forsennatamente si consuma, perché la sovracrescita economica non può che condurre all’ esaurimento delle risorse non rinnovabili utili all’uomo (il petrolio, tra le tante, ne è un’ esempio); senza considerare che la produzione senza limiti alimentata da un eccesso di consumo comporta immensi problemi di smaltimento dei rifiuti che solo in minima parte sono riciclabili, andando così ad aggravare i problemi della biosfera. Una crescita senza limiti, – sostiene Latouche – va ad alterare l’equilibrio della natura: l’ybris, la dismisura del signore padrone della natura, ha preso il posto dell’antica saggezza dell’inserimento di un ambiente sfruttato in modo ragionevole.

“Investire in spregio degli uomini”, rileva ancora Latouche. Il quale sottopone a severa critica l’attuale modo di produrre nel mondo. Quella attuale può essere definita un’economia della crescita per la crescita che diviene così un obiettivo primordiale non solamente finalizzata a soddisfare i bisogni normali che sarebbe di per sé un giusto fine. È una crescita orientata a far consumare sempre di più, complice il predominio della tecnica e l’efficace sistema della pubblicità che, nel creare un sentimento d’insoddisfazione, produce all’infinito nuovi (non sempre utili) bisogni. La globalizzazione è stata per il capitalismo la tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. La logica dell’accumulazione del capitale è l’illimitatezza e l’imposizione nel mondo della ragione mercantile va intesa come una vera e propria nuova religione. Da abbattere. Latouche non fa, come superficialmente potrebbe apparire, un discorso vetero – marxista, non demonizza di per sé l’economia di mercato tout court, non lancia anatemi contro il denaro, necessario per la produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni reali; segnala gli eccessi, il superamento dei limiti, segnala l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, critica il sistema in atto che porta ad accumulare sempre più il capitale in un numero ristretto di persone che non potrà mai spenderlo. Latouche fa un discorso etico e non moralistico, che riguarda l’uomo, sottolineando come la trasgressione del limite economico è il portato dell’avidità sfrenata che sfocia nell’accumulazione infinita e nell’identificazione del desiderio nel consumo come la ricerca di un oggetto introvabile e destinato a restare inappagato. Siamo nel dominio della psicologia del profondo. Parole illuminanti sono state scritte al riguardo da M. Recalcati quando afferma che il desiderio è qualcosa in più rispetto al soddisfacimento dei bisogni primari, e quando ci ricorda che l’esperienza clinica ci pone regolarmente di fronte allo scandalo della vita che ricerca un godimento inutile, dispendioso, nocivo, e cita quadri soggettivi come l’obesità e la bulimia quali esempi, dove il desiderio di godere raggiunge un apice distruttivo per la vita medesima.

La crisi dunque non è soltanto economica, è antropologica. Al di là di una certa soglia la rincorsa indefinita verso una crescita senza limite si rivela frustrante e controproducente. La sostanza del discorso di Latouche è che non si vuole negare la necessità di una crescita che favorisca il lavoro che di per sé è la misura dell’esistenza e della dignità dell’uomo, ma quella di una crescita che non sia dismisura.

Come si è visto il problema della crescita è strettamente correlato con quello del consumo, che coinvolge comportamenti psicologici individuali. Sul tema un altro studioso di cultura francese, il sociologo Gilles Lipovetsky formula un pensiero che si pone con originalità in posizione collaterale e parzialmente divergente da quello dell’economista francese sopra sinteticamente illustrato. Se nei paesi del mondo occidentale caratterizzati da crisi economiche e finanziarie, qualcuno ritiene che l’iperconsumo, che si manifesta con l’ascesa incessante dei desideri superflui, sia destinata a scomparire, Lipovetsky sostiene che, viceversa, proprio nelle fasi di crisi in cui cresce il malessere soggettivo, i consumi funzionano come mezzo di consolazione, forma di terapia per dimenticare le frustrazioni. Il desiderio mostrato verso i marchi di prestigio non mostra segnali di declino perché in una società alleggerita dalle grandi utopie, i marchi assolvono ad una funzione ineliminabile: sono sogni, offrono punti di sicurezza e sono strumenti di auto valorizzazione personale, così che, in queste condizioni, il comportamento compulsivo al consumo che va oltre la necessità, pur con le limitazioni imposte dalla riduzione delle risorse finanziarie a disposizione, ha ancora un futuro avanti a sé.

Abstract

L’autore sinteticamente evidenzia le caratteristiche della crisi in atto, e mette in luce lo stretto rapporto tra crisi economica e psicologia. L’autore espone le riflessioni di alcuni studiosi, tra i quali l’economista Serge Latouche che si sofferma sul concetto di limite, e sottolinea come il superamento di limiti nel campo economico ed ecologico è da ritenersi esiziale, perché non può portare ad una sana crescita. Viene altresì riportato il pensiero della filosofa Myriam Revault d’Allones la quale evidenzia la struttura della crisi attuale da considerarsi nuova in quanto globale e senza fine. L’autore rileva come la crisi attuale esprima anche le difficoltà esistenziali dell’uomo contemporaneo, sottolineando la necessità di andare oltre.

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Roberto Cantatrione