Umberto Galimberti, La casa di Psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, 2005 (a cura di Alessandro Uselli)
Un perturbante è entrato nella casa di psiche.
L’ospite inquietante che Galimberti introduce a chiedere, con una radicalità finora sconosciuta, il senso dell’esistenza, pare ricalcare nei tratti la descrizione che Freud trovò per il perturbante nel 1919 quando lo definì “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo, un elemento rimosso ma che ci era da sempre familiare”. Il concetto di perturbante fu ripreso anche da Carotenuto, che continuò quanto detto da Freud, chiosando che “il perturbante rivela ciò che è tenuto nascosto, e trasforma il noto in ignoto”.
È questo il fare con cui l’inatteso ospite prende voce dentro la casa di psiche: egli porta con se una domanda che non stravolge gli altri abitanti, i quali controbattono dicendo che la ricerca sul senso del vivere accompagna gli uomini dacché nacquero, poiché dacché nacquero dovettero misurarsi con la natura cruenta dell’esistenza.
Ma è qui che l’ospite diventa perturbante, quando non si lascia incalzare e deciso afferma che il senso della vita è andato perduto. L’età della tecnica, con la sua etica del fare produttivo, ha ridotto l’uomo a cosa, privandolo della propria responsabilità e di fatto esiliandolo in una vita etero-diretta dove non gli rimane che di vivere come ingranaggio dell’intero meccanismo della produzione.
L’uomo conobbe presto la sofferenza, il dolore, l’incombere della morte. Fu l’essenza di questa vita tragica che portò all’emergere di pratiche religiose e terapeutiche – prima fra tutte la psicoanalisi – che potessero lenire il pathos esistenziale.
Ma nell’età della tecnica la psicoanalisi non può aiutare: essa conosce il non senso di una vita contraddistinta dalla sofferenza, ma ignora la sofferenza di una vita caratterizzata dal non senso.
Contro questa può agire soltanto la pratica filosofica.
La casa di Psiche di Umberto Galimberti è un bellissimo libro che parte da qui per percorrere un iter filosofico che tocca tanto i Greci quanto Cartesio, Nietzsche quanto Freud, Jung quanto i fenomenologi, per poi tornare ai Greci e lì concludersi nel loro senso della vita.
È prima di tutto un libro di filosofia, essendo propriamente filosofici gli argomenti che tratta in ogni sua parte e grande lo spazio che da al cuore teorico di ogni autore. Potremmo parlare di questo libro come di una summa filosofica percorsa attraverso l’interrogativo sul senso dell’esistenza.
Gli argomenti e gli autori toccati sono tantissimi. Ci concentreremo quindi su quelle parti che più vanno al cuore della domanda con la quale l’ospite inquietante, il nostro perturbante, ha portato sconvolgimento nella casa di psiche, e vedremo di capire perché la psicoanalisi debba cedere il posto alla pratica filosofica in questa particolare stagione dell’esistenza che è l’età della tecnica.
Le visioni del mondo sottese alla psicoanalisi e alla pratica filosofica
La morte è il vero rimosso della cultura occidentale.
Al tempo dei greci, la visione dell’uomo poggiava le sue basi sulla concezione che vedeva la fine dell’esistenza quale componente indissolubile e costitutiva della vita, che permetteva alla vita stessa di perpetrarsi attraverso il ciclo naturale di nascita e morte.
Gli ospiti della casa di psiche, che inizialmente non si lasciano scuotere dal perturbante, sono pervasi da questa consapevolezza, e riconoscono la sofferenza, il dolore, la malattia, come parti della vita stessa, in quanto avanguardie della morte.
La morte non è quindi un inganno, come sarà per Schopenhauer e Leopardi, ma una componente dialettica dell’esistenza, nella quale non vi è spazio per l’illusione di una possibile salvezza.
Tale consapevolezza nei greci si traduce nell’esaltazione della vita come unica vita possibile, da vivere, godere, da gestire secondo virtù e conoscenza: sono queste per il greco le due forme principali di resistenza al dolore. Il sapere (màthesis) consente di evitare il male evitabile, la virtù (areté) di dominarlo entri certi limiti.
La precisazione sul limite è fondamentale per la cultura greca: il greco non impone nessun veto alla vita, ma esige che il governo dell’esistenza avvenga secondo misura (katà métron) e quindi gestendo con prudenza e saggezza (phrònesis) il proprio limite.
Soltanto uno è quindi il peccato mortale per il greco: la tracotanza (hybris). Se l’uomo perde il proprio limite e diventa tracotante, la virtù degenera e l’essere umano è destinato alla rovina.
È questo quello che è accaduto all’uomo della tecnica, allorché oltrepassando la giusta misura, ha pagato la propria tracotanza con lo smarrimento dell’anima.
Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere.
La pratica filosofica emerge da tale antico retroterra culturale. La visione della vita come tragica, ove alla morte non ci si può sottrarre, la porta a convenire con i greci sull’impossibilità di ogni guarigione. È questa la ragione per la quale gli odierni consulenti filosofici attestano se stessi come non-terapeuti, poiché ritengono che la vita non sia suscettibile di guarigione, ma solo governabile, attraverso la cura di sé.
L’angoscia a cui la pratica filosofica si rivolge è l’angoscia esistenziale, l’angoscia che comprende il mondo ed esula dal singolo individuo, perché non si basa su una ragione individuale, ma sulla matrice germinativa di tale ragione, nei riguardi della quale la psicoanalisi rimane impotente.
Tale impotenza deriva dalla differente prospettiva esistenziale che v’è alla base del sapere psicoanalitico, dove il dolore non è considerato un tratto inscindibile dell’esistenza, ma una malattia da cui si può e si deve guarire.
La divergenza tra pratica filosofica e prospettiva psicoanalitica affonda le radici e trova ragion d’essere nelle differenti culture di riferimento da cui esse emanano. Contrariamente alla pratica filosofica che ritorna alle radici della filosofia greca, la psicoanalisi si presenta come una forma secolarizzata della redenzione religiosa, poiché essa trae la propria cultura dalla visione giudaico-cristiana dell’esistenza.
La visione giudaico-cristiana dell’esistenza guarda alla vita come a una malattia, da cui potrà esistere liberazione e salvezza in un aldilà da conquistare attraverso l’abnegazione e la mortificazione terrena. La salvezza della psicoanalisi si chiama guarigione, e ne è quindi una versione secolarizzata. In quanto il dolore non è costitutivo dell’esistenza, esso và estirpato, curato, guarito. Salvato per l’appunto.
La conseguenza diretta è la rimozione del dolore da ogni concezione dell’esistere, una tracotanza che l’uomo finisce per pagare a caro prezzo, come pena per aver valicato il proprio limite.
La giusta misura è invece la meta che si prefigge la pratica filosofica. Essa “guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura”.
Psicoanalisi e analisi esistenziale
Binswanger parla del “cancro di ogni psicologia”, creatosi allorquando l’uomo è stato lacerato distintamente in corpo e anima.
La prima divisione antropologica risale a Platone, che per primo divise il mondo sensibile da quello intellegibile, staccandosi dalla tradizione precedente della cultura greca e della tradizione ebraica che non conoscevano questo dualismo, ma concepivano l’uomo non come un’anima che ha un corpo ma come un corpo che è in relazione con il mondo.
La schema introdotto da Cartesio, che divide la sostanza pensante (res cogitans) dalla materia estesa (res extensa) fu fondamentale per lo sviluppo della scienza. La psichiatria e la psicoanalisi derivarono tale modello concettuale, ma così facendo entrarono in crisi.
La psicoanalisi, così come la psichiatria, sono scienze dell’anima. La forza che la scienza ha tratto dal dualismo antropologico è stato quello di trovare fondamento nella res extensa.
La res extensa in psichiatria diviene un concetto inapplicabile, poiché i parametri di oggettività e misurabilità propri delle scienze naturali, non sono solubili con le caratteristiche della psiche umana. La risultante è che lo psichico per dover diventare scientifico si è dovuto adeguare ad essere res extensa, e così facendo è stato ridotto e epifenomeno del fisiologico.
Quello che ne deriva, parafrasando Jaspers, non è una psicologia che comprende ma una psico-fisiologia che spiega.
Jaspers fu il primo a rendersi conto che la psicologia doveva abbandonare l’ideale esplicativo perseguito dalle scienza naturali, denunciando il carattere riduttivo di ogni spiegazione: “È possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo”, perché ciò che viene spiegato è semplicemente ridotto a ciò che è anteriormente supposto.
Freud mostra chiaramente di attenersi all’ideale esplicativo delle scienze naturali, guidato dallo schema cartesiano. Le due ipotesi che sono alla base della teoria psicoanalitica assumono che “la vita psichica è funzione di un apparato, al quale attribuiamo la proprietà di essere esteso nello spazio e composto da più parti” e nell’inferire dalla “constatata lacunosità della serie degli atti coscienti” che “lo psichico è in se inconscio”.
Alla base di queste ipotesi c’è quindi l’accettazione indiscussa del presupposto scientifico secondo cui la realtà esiste sempre e soltanto nella forma di una causalità rigorosa e senza lacune, per cui se non si riesce a constatare questa causalità a livello della coscienza, bisognerà giocoforza affermarla a livello inconscio.
Da queste premesse risulta evidente che l’inconscio non è una realtà psichica ravvisabile fenomenologicamente, ma un prodotto del metodo con cui Freud ha affermato questa realtà, ovvero accettando in maniera indiscussa l’ipotesi causale prima argomentata.
Eppure dal raffronto tra la teoria psicoanalitica e la sua traduzione nella prassi terapeutica, emerge una contraddizione: il fare terapeutico tradisce il modello esplicativo delle scienze naturali, leit motiv della teoria psicoanalitica, è aderisce al modello comprensivo delle scienze umane fenomenologicamente fondate.
Freud in terapia depone quindi le vesti del naturalista e assume quelle del fenomenologo: nel rapporto terapeutico egli non tiene presente il modo in cui la libido del paziente viene trasferita sull’analista, ma il modo di essere al mondo del paziente che con l’analista vive quell’unica modalità di rapportarsi all’altro che fin dagli albori della sua esistenza ha appreso e non ha più modificato.
Tutto ciò è reso possibile non dalla libido, ma da quell’originario poter-essere-insieme l’uno con l’altro. Di conseguenza transfert e controtransfert non sono uno scambio di correnti fisiche, ma espressione di quella struttura trascendentale dell’umano per cui ogni esistenza è originariamente una co-esistenza.
La guarigione a questo punto non consegue allo svelamento delle motivazioni inconsce, ma al vivere in quel mondo-ambiente che accetta incondizionatamente il suo modo abituale di darsi spazio e tempo, così che in questa verifica dei suoi a priori esistenziali possa accorgersi del suo modo di essere nel mondo e se crede di modificarlo.
La sintesi che si ricava dalle precedenti argomentazioni porta quindi a dedurre che la nozione di uomo implicita nella terapia psicoanalitica non ha nulla a che fare con la nozione di uomo che la teoria psicoanalitica ha ottenuto per derivazione diretta dalla scienze naturali cartesianamente impostate, ma è più vicina alla fenomenologia trascendentale di Husserl e all’analitica heideggerriana dell’esserci (Dasein), per cui la Dasein-analyse è il corretto piano teorico da cui è deducibile il trattamento terapeutico della Psycho-analyse.
La fenomenologia di Husserl e l’analitica esistenziale di Heidegger sono allora le discipline capaci di dare alla psicologia quel capovolgimento metodologico che la fa nascere come scienza umana e la riscatta da quel livello psicofisiologico in cui si erano trattenute sia la psichiatria classica sia la teoria psicoanalitica. Questo avviene perché sia la fenomenologia sia l’esistenzialismo non sono un metodo terapeutico ma un tentativo di comprendere la struttura dell’uomo e la sua esperienza in termini che siano propriamente umani e non naturalistici. Così facendo si fornisce un valido supporto alle tecniche psicoterapeutiche, evitando i rischi che conseguono all’oggettivazione dell’uomo. Da qui si potrebbe affermare che ogni psicoterapeuta è fenomenologo nella misura in cui è un buon terapeuta.
Sulla necessità di superamento del dualismo antropologico si è espresso anche Ludwig Binswanger. Anch’egli parte dall’analitica esistenziale di Heidegger riconoscendogli sia il merito di aver superato la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza ma soprattutto quello di aver illuminato la struttura del soggetto come trascendenza, garantendo così l’unità tra persona e mondo.
L’analisi esistenziale di Binswanger si prefigge due obiettivi perché la psicologia possa attestarsi come “propriamente umana”: deve comprendere tanto l’alienato quanto la persona sana come appartenenti allo stesso mondo; deve salvaguardare la natura dell’uomo di fronte a qualsiasi concettualizzazione scientifica riduttiva.
La non distinzione tra sano e alienato fa sorgere la domanda su quale allora possa o debba essere la norma secondo questo paradigma.
Binswanger affronta e travalica il problema rispondendo che l’analisi esistenziale non ricorre a una normativa meta-individuale, ma cerca il criterio di comprensione dell’esistenza stessa. Laddove l’esistenza non è pre-codificata da ipotesi interpretative anticipate ma è libera di manifestarsi come essa è, quelle che normalmente sarebbero chiamate disfunzioni appariranno come differenti funzioni con cui l’esistenza struttura se stessa, come diverse modalità di essere nel mondo.
L’essere nel mondo è ordinato dagli a priori esistenziali che Heidegger segnala in Essere e Tempo. Queste strutture non sono delle caratteristiche dell’esistenza intese come suo avere, ma sono le modalità costitutive del suo essere. Ne consegue che gli alienati non hanno la schizofrenia, ma sono la schizofrenia, perché la loro patologia rientra nella sfera dell’essere, del loro modo di essere nel mondo.
Una volta individuato il piano propriamente umano su cui condurre un’analisi psicologica, Binswanger declina in senso ontico l’analitica esistenziale di Heidegger.
Il discorso sull’essere nel mondo di quest’ultimo aveva avuto come effetto quello di parlare dell’esistenza ma non di questa o quell’altra esistenza. Secondo Binswanger “l’analisi esistenziale di per sé non è un’ontologia né una filosofia, essa pertanto non deve essere in alcun modo definita un’antropologia filosofica,l’unica definizione appropriata è quella di antropologia fenomenologica. L’analisi esistenziale non formula tesi ontologiche circa un rapporto modale che determini l’esistenza, ma soltanto degli enunciati ontici”.
Tale declinazione ontica degli a priori esistenziali porta Binswanger ad allontanarsi da Heidegger e avvicinarsi a Sartre, per il quale non si da una struttura generale dell’essere umano, ma ogni essere umano costruisce il significato del suo mondo di cui è responsabile. Per Sartre non si può cambiare un proprio comportamento parziale se non cambiando il proprio essere nel mondo.
L’a priori esistenziale di Binswanger riproduce esattamente il progetto originario di Sartre. Tutto ciò non ha niente a che fare con il progetto heideggerriano, per il quale il significato dell’esperienza, non dipende da colui che attribuisce significato ma dall’essere che come presenza originaria è offerta di significati.
È evidente quindi che il progetto di Sartre sia il capovolgimento di quello di Heidegger, dato che per Sartre l’essere è quell’in se di cui nulla si può sperimentare mentre l’ente è ciò che viene costituito dall’umano per se, per appropriazione. Alla base vi è quindi la radicale differenza dell’essere dall’ente, il primo impenetrabile nel suo significato, l’altro reso significante dal progetto umano.
Dal discorso fin qui fatto emerge che, essendo l’a-priori esistenziale di Binswanger la fonte del significato che le cose assumono per l’individuo, l’analisi esistenziale di Binswanger riproduce la psicoanalisi di Sartre che differentemente a quella di Freud, che ha individuato nelle pulsioni il suo irriducibile, lascia che questo si annunci in un’intuizione evidente. I comportamenti studiati da questa psicoanalisi non saranno solamente i sogni, gli atti mancati e le nevrosi, ma anche gli atti coscienti, gli atti riusciti. Sartre conclude dicendo che un tale tipo di psicoanalisi non ha ancora trovato il suo Freud.
Ma forse, conclude Galimberti, il Freud atteso da Sartre, è Binswanger.
La conclusione finale da trarre non è che l’analisi esistenziale esprima una prassi terapeutica, ma che la terapia psicoanalitica riconosca nell’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata una possibilità per chiarire il proprio statuto epistemologico e per eliminare quella contraddizione che non consente alla prassi psicoanalitica di riconoscersi nell’impianto teorico che ha ereditato dalle scienze naturali.
La fenomenologia e l’esistenzialismo consentono di comprendere la struttura dell’essere umano e la sua esperienza in termini che siano propriamente umani e non naturalistici e così facendo rivelano come l’uomo struttura il proprio essere nel mondo, senza limitarsi come fa la psicoanalisi a rilevare come a livello umano si manifestano delle realtà fisiologiche.
Jacob Needleman afferma che “la fenomenologia è l’arte di lasciar essere i fenomeni e può essere chiamata a giusto titolo la ‘salute’ della spiegazione, la garanzia della sua libertà”.
Jaspers: dalla psicopatologia alla filosofia
La distinzione tra scienze della natura, dal taglio nomologico-deduttivo con intenzione “esplicativa” e le scienze dello spirito, dal taglio storico-ermeneutico con intenzione “comprensiva”, introdotta da W. Dilthey, per la quale si può cominciare a parlare di psicologia in senso proprio solo se si lascia da parte il problema della causalità naturalistica e si adotta quella modalità di conoscenza che consiste nell’avvicinare la vita con la vita, ovvero con il comprendere la vita psicologica dall’interno, trova la sua prima applicazione in campo psichiatrico con Karl Jaspers.
Nel 1913 la pubblicazione di Psicopatologia generale, segna una tappa epocale in quanto determina la nascita di una disciplina che non cerca le cause della follia nella genericità dell’organismo, ma il suo senso per il singolo individuo.
In termini macroscopici questo si traduce nella distinzione Jaspersiana tra spiegare e comprendere, la quale indica come possa essere applicata la prima senza necessariamente implicare la seconda.
Il fine è quello di superare la distinzione anima-corpo e impostare il problema psicologico a partire dall’essere umano considerato come un tutto.
Il riferimento primario in questo senso di Jaspers è Hegel he per primo considerò le manifestazioni dello spirito nella loro totalità”. Husserl diede subito la propria approvazione all’opera di Jaspers, mentre Heidegger invece espresse delle riserve, apprezzando l’opera da un punto di vista psicologico ma criticandola dal punto di vista filosofico poiché a suo parere l’autore non fonda l’assunto de “la vita come totalità” su cui tutta la costruzione teorica si regge.
L’opera di Jaspers si compone di una prima parte in cui si articola il discorso su di una psicologia comprensiva a cui succede una seconda parte basata su di una psicologia esplicativa. A queste due segue la parte fondamentale dell’opera nella quale Jaspers supera il dualismo cartesiano e imposta il problema considerando l’uomo come un tutto.
Ma in che modo può raggiungersi questo fine, oltrepassando l’oggettività e uscendo dalla scissione soggetto-oggetto? In un solo modo: radicalizzando l’orizzonte della presenza fino ad avvertire quella presenza originaria che abbracciando accoglie e accogliendo fonda la presenza di un oggetto a un soggetto, imparando dai filosofi.
Nell’opera successiva di Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, la distinzione tra salute e malattia crolla del tutto, non c’è più né la spiegazione né la comprensione dei fenomeni psichici, come era accaduto rispettivamente nella sezione esplicativa e in quella comprensiva della Psicopatologia generale: essenziale in una visione del mondo diventa ciò che si cela dietro la distinzione tra soggetto e oggetto, ossia una struttura trascendentale presente sia nel sano che nell’alienato e che condiziona il proprio modo di rapportarsi al mondo.
Per dirla con Heidegger, Jaspers giunge così a cogliere l’a priori esistenziale.
Partendo dall’a priori esistenziale l’incomprensibilità dell’alienato non sarà più dedotta dalle sue singole percezioni ma dalla sua visione del mondo. A differenza dell’interpretazione psicoanalitica qui non è un contenuto del passato che disturba l’esistenza e causa la sua alienazione, ma una modalità con cui l’esistenza vede il mondo che impedisce al passato di passare e al futuro di compiersi.
Perché ciò avvenga e si abbia un cambiamento a livello biografico occorre che si compia un cambiamento trascendentale, bisogna operare sulla visione del mondo a cui l’esistenza si è consegnata.
La variabile a cui quindi si riduce tutto non è più la descrizione o la comprensione dei vissuti ma la visione delle varianti di quell’invariabile ontologica che è la visione del mondo, che compone il mondo dei sani quanto quello degli alienati.
Il discorso sulla filosofia di Jaspers non può non riandare ai temi sull’età della tecnica sui quali l’autore si è particolarmente preoccupato.
Bacone sosteneva che sapere è potere. Tale potere oggi è monopolio della scienza e della tecnica che nel realizzare il fine che era della filosofia ne decreta anche la fine. Fare scienza e fare tecnica è oggi il modo di fare filosofia.
La filosofia ha dovuto rinunciare alla sua speculazione sulla verità come manifestazione dell’essere, per risolversi nella certezza di un soggetto che si certifica da se e che quindi non lascia spazio a un attività al di fuori a quella rappresentativa e produttiva.
Con Socrate e la nascita del concetto si chiude per Jaspers il periodo assiale dell’umanità e si dischiude l’occidente, quell’epoca in cui il pensiero muta forma e abbandonata la philousìa (amore per l’essere) per la philosophìa (amore per il sapere) si giunge alla sophìa, ovvero quel sapere che è semplicemente possesso. Il pensiero diventa valido quanto più riesce a non lasciare nulla di infondato. L’equivoco di cui è stata vittima la filosofia occidentale è per Jaspers l’aver pensato l’essere sul modello dell’oggetto presente al soggetto. Più di tutto questo è evidente in Hegel, dove soggetto e oggetto, razionalità e realtà si identificano senza residui.
In questo modo la filosofia occidentale ha ridotto l’essere a fondamento, e ha smarrito il senso dell’essere che non è fondamento (Grund) ma suolo, terreno (Boden) su cui è soltanto possibile edificare l’ente e abitare la terra.
Da qui Jaspers deduce che l’uomo di oggi è bodenlos, ovvero senza terra.
L’epistéme, la gnosi, la ratio, la scientia, un tempo espressioni del filosofico, oggi appartengono allo scientifico, che con i suoi metodi di indagine risolve problemi che un tempo erano filosofici e che ora, risolti dall’evidenza scientifica, non lo sono più.
La scienza sa, dice Jaspers, ma non sa il senso del suo sapere.
L’uomo oggi si trova nel rischio più grande che è l’impossibilità di pensare, perché il pensare come spiegazione ed esplicitazione presume di aver risolto ogni enigma.
L’unica soluzione contro il tramonto della filosofia e del pensiero in quanto tale, è nel mutamento di prospettiva dalla filosofia come spiegazione, alla filosofia come ermeneutica.
L’ermeneutica jaspersiana, che trova il proprio linguaggio nella cifra, si fonda sul presupposto che ciò che rimane custodito e nascosto dalla cifra, costituendo lo scacco del pensiero scientifico, fornisce il terreno fecondo su cui il pensiero trascendente può fiorire e svilupparsi. Come ermeneutica la filosofia si applica agli stessi dati a cui si applica la scienza, ma invece di leggerli come oggetti conosciuti li legge come cifre rinvianti.
Dall’ideale della spiegazione totale a quella del custodire e accogliere il nascosto. Nasce così il filosofare come ricerca che si contrappone alla filosofia come sapere e sistema, una testimonianza dell’essenza metafisica della filosofia.
Come sapere, come statuto, come norma del giorno la filosofia è finita. Se per essa c’è un futuro questo futuro è solo nella direzione della passione per la notte, una passione propria non di chi abita la notte ma di chi vivendo nel giorno attende un senso alla notte.
Nel 1947 esce Von der Wahrheit, che benché passata in sordina, rappresenta quell’ampio dispiegamento di quell’operare filosofico che oggi cominciamo a chiamare pratica filosofica.
A questo esito Jaspers giunge attraverso quella che ritiene essere l’operazione filosofica fondamentale:
“La domanda è: che cos’è essere? La domanda che introduce a questa domanda è: come posso e come devo pensare l’essere?”
La soluzione è nel rifiuto di essere soluzione: “La filosofia deve rinunciare alla soluzione. Essa è in grado di offrire solo qualcosa che ha una certa analogia con la soluzione, come la liberazione per…”
Questo è emblematico della concezione jaspersiana della libertà come conquista e non come semplice dato, una libertà che quindi è liberazione. Importante è che la filosofia nelle sue risposte non cancelli le domande e questo è possibile solo se offre le sue unicamente come delle nuove e più autentiche cifre capaci di non mettere a tacere la tensione interna alla parola che di volta in volta nomina la cosa.
“La filosofia può levare la cataratta alla nostra cecità, ma allora noi con i nostri occhi dobbiamo vedere”.
La pratica filosofica
Troppi si concedono alle psicoterapie per questo o quello, ma questo o quello, una volta scavati, si rivelano figure di un desiderio infinito. Essendo il desiderio infinito l’antitesi della natura mortale degli uomini, l’uomo è destinato alla sofferenza, e per non vederla va alla ricerca di una cura millantando le ragioni più disparate.
Secondo Galimberti, tante cure psicoterapiche invece di inventare soluzioni ai più svariati problemi dell’esistenza, dovrebbero educare all’accettazione di quell’unica esistenza mortale che abbiamo.
Non accettando il destino, non lo esprimiamo. E nella non espressione di se c’è il fondo di molte sofferenze percorse da un sapore di infedeltà alla vita. Qui la filosofia viene a dirci che la vita è della natura e non dell’individuo. L’uomo che non accetta tale dato finisce col divenire tracotante e a scambiare il senso del proprio dolore con il senso della terra. Una volta riappacificatosi col proprio limite l’uomo riscopre il proprio destino e la sua finitezza di desiderio.
Qui risiede la giusta misura: nel non concedersi incondizionatamente al desiderio, così come nel non rassegnarsi perdutamente al limite.
La tradizione giudaico-cristiana ha sciolto il nesso tra felicità e crudeltà che la natura, nella sua innocenza vincola attribuendo la felicità alla vita in quanto creazione di dio e la crudeltà all’uomo che con la colpa ha infranto la bellezza della creazione. In questo modo la tradizione giudaico-cristiana, a differenza della cultura greca, non ha voluto guardare in faccia il dolore nella sua ineludibile realtà e con questa rimozione si è congedata dalla tragedia incanalando la sofferenza sui sentieri della speranza che conducono a scenari di salvezza.
Così facendo la tradizione giudaico-cristiana ha perso la giusta misura e ha educato l’uomo al desiderio infinito. Non più “fedeltà alla terra” ma “cieli nuovi e nuova terra”.
La richiesta d’aiuto è naturale per l’essere umano, ma mentre il Greco invoca gli dei contro le angustie della vita, per ottenere una liberazione dal male presente, il cristiano si rivolge a Dio per essere liberato dal male in generale, come vuole anche la recita del Padre Nostro.
Il greco non chiede di essere salvato della morte, come invece il cristiano crede che gli toccherà in dono in seguito alla mortificazione terrena.
È proprio la consapevolezza della morte a consentire all’uomo di esprimere il suo spirito, non come signore del creato ma come signore del tempo che gli è stato assegnato, in cui può dispiegare le sue opere, secondo misura. Interiorizzare quindi la morte come misura della vita.
La crudeltà dell’esistenza offusca la mente e oscura il discernimento, per cui deve essere continua quella frequentazione del sapere a cui invita Socrate, perché chi sa non si lascia offuscare la mente, e chi non si lascia offuscare la mente non commette il male.
È da qui che nasce la filosofia quale terapia della mente per il miglioramento della condotta umana, dove l’accento non è fissato sulla imputabilità della condotta ma sulle condizioni che rendono una condotta saggia o insipiente e quindi contenuta nella giusta misura oppure tracotante.
Nell’età della tecnica la potenza del sapere ha oltrepassato la giusta misura.
Il dislivello tra l’uomo e il mondo artificiale, tra la cultura soggettiva e quella oggettivata dalle macchine, genera ansia esistenziale dovuta all’incapacità dell’essere umano a stare al livello della tecnica, incapacità che non cesserà di essere ma tenderà a ingigantirsi, considerato il grado di espansione promesso dalla tecnica.
La cultura dell’età della tecnica è una cultura senz’anima. Ed è tale la potenza da essa acquisita che la domanda che oggi tocca porsi è: cosa farà la tecnica dell’uomo?
Prima il limite erano il cielo e la terra, oggi il limite è la tecnica, e quindi il limite non esiste più.
Platone dice che è insensato occuparsi di qualsiasi cosa se prima non si è raccolto il messaggio dell’oracolo di Delfi che incita alla conoscenza di sé.
Conoscenza di sé significa conoscere la natura dell’uomo e conoscere il proprio modo di essere uomo. Riguardo la prima si ritorna al concetto di finitezza dell’uomo, il quale deve prendere atto della propria natura mortale e prodigarsi verso una vita buona che non preveda l’illusione della salvezza dalla morte e che di conseguenza segni un limite entro il quale l’uomo si accorga della propria possibilità di vita secondo misura.
Riguardo la seconda Platone dice che mentre l’animale può evitare di conoscere se stesso in quanto la sua vita è regolata da istinti, l’uomo privo com’è di istinti è delegato alla cura di se. L’assenza di istinto svincola l’uomo da qualsiasi comportamento codificato, ma al tempo steso lo lascia libero nello scenario del possibile, ove corre il rischio di perdere la giusta misura.
La felicità (eudaimonìa) è dettata dal proprio demone interno e quindi risiede nella realizzazione di sé. L’uomo è quindi creatore di se stesso e a questa creazione i greci hanno dato il nome di “arte del vivere” (Téchne toù bìou).
Questa è la competenza circa ciò che possiamo o non possiamo avere, dove è compresa la rinuncia, non in senso ascetico, ma come prevenzione della tracotanza.
L’etica che ne deriva è quindi una mescolanza di coraggio e prudenza: il coraggio di espandere la vita e la prudenza di non espanderla oltre i limiti concessi dalle nostre possibilità.
Se chiamiamo virtù il dar forma alla propria forza allora essere virtuosi significa divenire legge a se stessi, perché chi non è in grado a dar legge a se stesso è condannato, come dice Nietzsche, a subire la legge degli altri. Questo è reso ancor più vero dall’età della tecnica dove i confini risultano notevolmente allentati. Se non è più nella legge dell’appartenenza che troveremo la nostra forma, allora dovremo darcela da noi stessi, diventando legge a noi medesimi. Qui risiede quello che gli antichi chiamavano aretè.
Il sopraggiungere dell’età della tecnica ha tagliato senza esitazione le radici che affondavano l’etica nel terreno stabile dell’eterno e della previsione futura. I principi sui quali l’etica si posava erano basati sulla filosofia e sulla tradizione giudaico-cristiana, quando ancora la natura aveva il sopravvento sull’uomo, mentre oggi ci troviamo in un contesto in cui la natura non è più immutabile ma pienamente manipolabile dall’uomo. Questa condizione non era prevista quando i principi su cui nacque l’etica occidentale vennero fissati.
Le tre principali forme di etica sviluppatesi in occidente – l’etica cristiana, l’etica laica, l’etica della responsabilità – oggi appaiono enormemente inadeguate e inefficaci perché la loro capacità di ordinamento è di gran lunga limitata rispetto alla grandezza che si vorrebbe ordinare.
A questo punto all’uomo non rimane che l’etica del viandante, il quale a differenza del viaggiatore che cammina verso una metà, non si dirige verso alcun posto particolare, ma aderisce di volta in volta ai paesaggi che incontra andando per via.
Senza meta e senza punti ne di partenza ne di arrivo, l’etica del viandante può essere il punto di riferimento di un’umanità a cui la tecnica ha consegnato un futuro imprevedibile.
L’imperativo etico non può più essere dedotto da una normatività ideale come è sempre stato dai tempi di Platone alle soglie dell’età della tecnica, ma da quella incessante attualità che sono gli effetti del fare tecnico. Non più il “dovere” che prescrive il “fare” ma il dovere che deve inseguire e fare i conti con gli effetti già prodotti del fare.
Dal disincanto del mondo e dall’instabilità di tutti i principi che prima lo definivano, nasce un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante che non domina neppure la sua via.
Rinunciando a dominare il tempo, il viandante che ha rinunciato alla meta sa guardare in faccia all’indecifrabilità del destino.
L’etica del viandante non è quindi un’etica anarchica. Scrive Galimberti: “il nomadismo è la delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della metà o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro”.
Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, allora l’etica del viandante ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre convinzioni.
Senza meta e senza punti di partenza e dia arrivo, il viandante, con la sua etica, può quindi essere il punto di riferimento dell’umanità a venire.