a cura di C. Illiano
L’adolescenza è notoriamente uno dei periodi più difficili della vita di ogni individuo, una fase critica piena di incertezze e di difficoltà. La società e la famiglia si aspettano che l’adolescente diventi “maturo”, responsabile, in grado di acquisire un’indipendenza economica, una solida vita affettiva e una capacità di diventare agente attivo nel mondo, una persona in grado di affrontare la vita e non di subirla passivamente. La sfida dell’adolescenza è anche una sfida “narrativa”: l’adolescente deve riuscire a creare storie che generino senso a ciò che sta avvenendo nella sua vita e ai cambiamenti che si trova ad affrontare. La cultura contribuisce a formare l’adolescente mettendogli a disposizione quelle conoscenze implicite grazie alle quali ogni persona può trovare utili modi di agire in diversi contesti, condividendo con il resto della società valori e idee e comunicando tali significati in modo utile e proficuo per la propria crescita. È questa la prova più difficile che deve affrontare l’adolescente: la necessità di creare una propria identità, di trovare un proprio equilibrio interiore, tramite il confronto con gli altri e la narrazione/costruzione di sé stesso. Questo è il presupposto da cui parte il libro, un libro che raggruppa una serie di articoli e contributi, divisi in due parti, di ricercatori e psicologi sul tema della narrazione in adolescenza. Nella prima parte si affronta, in modo teorico, la prospettiva alla base del libro con i contributi di Scaratti, Di Blasio e Brockmeier e Harrè.
Secondo Scaratti, l’individuo si troverebbe immerso completamente in un ambiente socio-culturale da cui non può prescindere neanche nella costruzione della propria identità: quest’ultima, infatti, si genererebbe dall’interazione con gli altri e dai processi relazionali che intervengono durante l’esperienza di ogni individuo. Ciascuno deve necessariamente regolare la propria attività mentale condividendo i significati, le credenze, i valori e le intenzioni sia proprie che dell’altro. Il senso attribuito alle varie esperienze di vita non sarebbe un processo individuale e soggettivo, bensì un percorso ricco di interazioni e comunicazioni con il mondo circostante: “per diventare se stesso, il soggetto è chiamato ad interpretare e coordinare le diverse interpretazioni degli scenari che deve affrontare, in qualche modo a provare costruzioni di significati possibili per vedere l’effetto che fa’”. Conoscenza come costruzione derivante da un processo interattivo inserito in un dato contesto storico-culturale in cui i soggetti cercano di dare, a volte con molta difficoltà e sofferenza, un senso e un significato agli altri, al mondo e a se stessi. Un significato non unico ma variegato, molteplice, ricco di numerose sfumature; una molteplicità di letture e interpretazioni, una necessaria ricerca di significato attraverso una “costante mediazione semiosica (inerente le condizioni della produzione di segni e delle loro interpretazioni) e semiotica (relativa all’attribuzione di significati)”. In questa prospettiva, i racconti autobiografici inventano il Sè e trasformano l’esperienza di vita di ciascuno in un testo. L’autobiografia permette una rilettura e una ricostruzione consensuale di significati nella propria cultura di appartenzenza e l’identità si inserisce in una “strutturale ed originaria disposizione del soggetto ad accettare ed assumere il gioco della condivisione dei significati, attraverso continui aggiustamenti adattivi”.
Paola Di Blasio, invece, punta l’attenzione sulle cosiddette “storie di vita difficili”, ossia quelle storie che vedono come protagonisti bambini abusati fisicamente, psichicamente e sessualmente. Queste esperienze precoci causerebbero problemi non solo nella regolazione delle emozioni, ma anche nella capacità di comprendere le proprie e quelle altrui. Spesso questi bambini vivono in famiglie composte da un genitore abusante e da un altro genitore non in grado di aiutare il figlio ad elaborare e superare queste esperienze; per questo motivo il bambino svilupperà un’incapacità di interpretare correttamente il comportamento altrui che verrà esclusivamente visto come connotato di valenze negative a causa delle esperienze sfavorevoli precedentemente accumulate, generando così eccessiva rabbia e ostilità. Nella maggior parte dei casi il piccolo non può neanche verbalizzare ciò che gli accade e questa impossibilità si riflette nell’evoluzione del Sé e nella memoria delle proprie esperienze: “la funzione primaria della memoria non consiste in una semplice registrazione fotografica, statica e contestuale degli eventi, ma in un processo dinamico e interpersonale dei significati sociali e culturali, che si articola e si modula anche in connessione con il racconto dell’esperienza stessa”. Secondo la teoria dell’attaccamento, è fondamentale la presenza di figure significative stabili e legami affettivi sicuri per poter permettere lo sviluppo della capacità di monitoraggio metacognitivo (possibilità di pensare sul pensare) e la competenza autoriflessiva (abilità di mentalizzare, ossia di rappresentare il comportamento mediante stati mentali). La salute mentale sarebbe strettamente connessa alla possibilità di manifestare e condividere con gli altri le proprie esperienze negative e le emozioni ad esse connesse. In caso contrario si manifesterebbe la cosiddetta “ruminazione mentale”, ossia una “reiterazione mentale senza fine che impedisce la riorganizzazione emotiva”.
Il contributo di Brockmeier e Harrè si focalizza sul tema della narrazione, sulla sua eziologia e sul suo significato. Narrazione come unica via in grado di costruire i significati dei testi e dei contesti dell’esperienza umana, come “insieme di strutture linguistiche e psicologiche, trasmesse a livello storico-culturale, delimitate dal proprio livello di padronanza e dalla personale combinazione di tecniche comunicative e sociali e abilità linguistiche e, nondimeno, da alcune caratteristiche personali come la curiosità, la passione e, qualche volta, l’ossessione.” Ogni volta che si racconta qualcosa, sia in modo verbale che in modo scritto, si usa una forma narrativa, ossia si presenta il materiale come una storia raccontata seguendo una norma convenzionale. Le narrazioni sono “forme immanenti al nostro modo di produrre conoscenza le quali, a loro volta, strutturano l’esperienza circa il mondo e noi stessi.” Esse rappresentano un insieme di regole che raggruppano ciò che è definito coerente e accettabile all’interno di una data cultura, sono un insieme di norme che delineano quello che è ammissibile e augurabile per una “corretta” condotta di vita culturalmente stabilita; le narrazioni sono modi di conseguimento di conoscenza, di strutturazione dell’esperienza e di organizzazione dell’azione.
La seconda parte raggruppa una serie di ricerche sull’argomento condotte mediante l’uso di produzioni discorsive autobiografiche ed il cui focus, in quasi tutti i casi, ruota attorno all’uso degli indicatori individuati da Bruner:
– Azioni, atti intenzionali: azioni di libera scelta.
– Impegno: adesione ad un’azione voluta.
– Risorse: beni impegnati nel progetto.
– Riferimento sociale: riferimenti dell’individuo nella fase di scelta degli obiettivi da perseguire.
– Valutazione: valutazione di prospettive, risultati e progressi.
– Qualia: segni della soggettività del Sè.
– Attività auto-riflessiva: aspetti metacognitivi del Sé e attività riflessiva.
– Coerenza: integrità degli atti.
– Localizzazione: Come il Sé viene collocato nel tempo, nello spazio e nell’ordine sociale.
La ricerca svolta da Aleni Sestito e Parrello è volta ad individuare i vari momenti di costruzione del Sé nelle fasi della vita che richiedono una revisione del passato e una formulazione di piani per l’avvenire. Il campione di soggetti è rappresentato da 193 ragazzi divisi in tre sottogruppi con età variabile che comprende sia il secondo decennio di vita che il terzo. Le ipotesi riguardano “la relazione tra persistenza, autoefficacia e capacità progettuali ed inoltre l’incidenza della variabile età sulla strutturazione temporale della narrazione autobiografica”. I risultati mostrano, con il progredire dell’età dei soggetti, un aumento della ricchezza e dell’ampiezza delle narrazioni autobiografiche ed una maggiore centratura sul presente con impoverimento delle narrazioni relative al futuro. Appare, quindi, evidente una maggiore difficoltà a progettare proprio nei soggetti maggiormente impegnati a fare scelte e a prendere decisioni importanti per la propria vita futura. Questi ragazzi si trovano in una fase ricca di incertezze e questo maggiore investimento sul presente potrebbe essere spiegato da un tentativo “di dispensare i giovani dal più incerto e gravoso investimento sul futuro”.
Il contributo di Bastianoni e Melotti si focalizza sulla rappresentazione di Sè che hanno i ragazzi italiani e quelli stranieri e la differenza esistente tra i due gruppi. Il campione raggruppa 146 studenti italiani e stranieri compresi tra gli 11 e i 15 anni e residenti in Emilia Romagna. Dalla ricerca emerge una forte differenziazione in entrambi i gruppi soprattutto per quanto concerne le definizioni del Sè. Gli stranieri, infatti, danno una definizione più generale e familiare, meno esposta a cambiamenti culturali, usando un vocabolario elementare, più consono alla fase evolutiva dell’infanzia. Gli italiani, invece, non dovendo provare la propria appartenenza ad una cultura, si riferiscono a dimensioni relazionali e ad aggettivi positivi (ottimista, fiducioso). Risulta, quindi un ambiente ancora fortemente connotato etnicamente, in cui c’è ancora la richiesta rivolta allo straniero di cambiare e modificare il proprio atteggiamento tenendo in considerazione la cultura in cui sta difficilmente tentando di inserirsi.
La ricerca di Emanuela Confalonieri è volta ad evidenziare le differenze di genere riscontrabili nelle narrazioni di 34 soggetti di età compresa tra i 15 e i 17 anni e frequentanti due diverse scuole medie superiori di Milano. Dalle narrazioni autobiografiche risulta una maggiore produzione da parte delle femmine con una facilità ed un desiderio maggiore di raccontare Sé e il proprio mondo, le figure significative che hanno caratterizzato la loro vita e le emozioni provate nel corso della stessa; mentre i maschi si raccontano senza prolungarsi troppo, generando racconti di media lunghezza e concentrandosi soprattutto sugli scopi e gli obiettivi da raggiungere, senza dilungarsi troppo sulle emozioni provate.
Tomish e Ardino evidenziano le differenze delle narrative di 14 adolescenti e 14 giovani adulti che si affacciano al mondo ed alla società in cui vivono, concentrandosi principalmente sul modo in cui si affrontano le transizioni di vita e il modo in cui esse contribuiscono a modificare e ridefinire l’identità dell’individuo. Da una parte si posiziona l’adolescente che si trova a doversi confrontare con un tentativo di costruire un Sè incerto e dall’altra c’è il giovane adulto che si focalizza maggiormente sul rapporto con il contesto sociale in cui si trova ad agire. I ragazzi più giovani affrontano il proprio compito volgendosi prevalentemente alla dimensione della percezione autoriflessiva della realtà e alle proprie capacità di introspezione, mentre quelli più grandi si mostrano sempre più coinvolti nella rete sociale di appartenenza.
In conclusione viene presentata la ricerca di Guglielmetti, Marta e Peri volta ad indagare il mondo dei giovani impiegati in attività di volontariato ed il loro modo di percepire se stessi in questo ambiente. I 20 soggetti d’indagine, con età compresa tra i 19 e 24 anni, mostrano di usare maggiormente la categoria relativa al Sé psicologico, ossia alle caratteristiche individuali che vengono, però, fatte confluire negli aspetti che riflettono le capacità o le interazioni sociali. La dimensione più importante e tenuta maggiormente in considerazione, infatti, risulta essere sempre il contesto sociale e la loro interazione con esso; mostrando, rispetto agli altri coetanei, una maggiore capacità di riflessione su se stessi.