in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 49, Roma, Di Renzo, 2001 – Estratto
Se è vero che ognuno uccide la cosa che ama, è anche vero che tutti, ogni giorno, nasciamo e moriamo. E tutti, ogni giorno, entriamo, anche senza saperlo, nel luogo delle nostre resurrezioni minori.
Nel suo commento al “Libro della Saggezza Orientale”, di Sohravardî, Mollâ Sadrâ, sostiene la teoria dei tre universi secondo uno schema che trova numerosi corrispettivi in occidente, a partire dal modello antropologico che sembra costituirne il parallelo, l’analogo, lo specchio che lo fonda, la tripartizione corpo-anima-spirito. La struttura di tutto l’esistente, sostiene Mollâ Sadrâ, si compone, per opera di Dio, dell’aldilà, di questo mondo e del mondo intermedio, il “barzakh”.
La triplice corrispondenza è ovvia. Per questo mondo Dio ha creato il corpo, per l’aldilà ha creato lo spirito, per l’intermondo l’anima. L’anima opera nel barzakh. Quando facciamo anima, se facciamo anima, ci troviamo nella valle di Keats, siamo gettati alle intermittenze, alle epifanie, godiamo dei nostri momenti d’essere, conversiamo coi demoni, dimoriamo nell’intermondo.
Ora, questo mondo intermedio è l’immaginale, il mondo autonomo delle immagini. Le quali, per quanto siano in sospensione, non hanno bisogno d’un supporto che ne sia il ricettacolo, non hanno bisogno cioè di sostrato materiale per essere reali. Appartengono a quella realtà che Jung chiama “Wirklichkeit”.
Si noti come sia consonante con i due primi universi dei neoplatonici di Persia la distinzione su cui spesso Jung ritorna tra “Realität” e Wirklichkeit. Non la realtà della presenza cioè, la realtà della lettera, ma quella degli effetti, la realtà di ciò che adesso esercita effetti su di me e mi fa essere in questo o quel modo.
Wirklichkeit, barzakh: Sorhavardi lo chiama anche il mondo delle forme immateriali che appaiono e lo connota come quello a partire dal quale si realizzano la resurrezione dei corpi, le apparizioni divine, le esperienze visionarie. L’immaginazione attiva rinviene qui uno dei suoi, molteplici, chiari precedenti.
La resurrezione, stando a questa tradizione di pensiero, solo può essere spiegata con riferimento al barzakh, al mondo intermedio delle immagini sospese. Solo può essere spiegata facendo riferimento al loro essere luoghi di apparizioni, come spiega Corbin, luoghi dunque, sospesi come in uno specchio. E ancora trova qui un suo analogo, nonché antecedente, il lacaniano “stade du miror”. Il che sta anche a indicare, tra l’altro, (e con l’ausilio degli altri analoghi, degli altri specchi che attraverseranno queste pagine) come la psicologia del profondo sia essa stessa una rinascita. Jung l’ha più volte a suo modo sostenuto. Nella psicologia del profondo rinascono, ad esempio, lo gnosticismo e l’alchimia.
Noi potremmo affermare che una psicologia del profondo, rettamente intesa, è luogo di rinascite, luogo di raccolta per così dire, luogo intermedio nel quale affluiscono da lontano e da meno lontano esperienze e dottrine altre. Non si limita a nascere la psicologia del profondo. Non nasce, o non nasce soltanto, nei laboratori di Wundt o nella “Traumdeutung” di Freud. Non nasce, tout court, rinasce. Rinasce a partire, ad esempio, dai misteri greci e dal sapere greco, dalle eresie gnostiche e dalle prosecuzioni alchemiche, dal ritorno degli dèi antichi nell’eone rinascimentale, come ci ha spiegato abbondantemente Seznec, dall’esperire romantico di poeti e filosofi.
Quanto alle ascendenze persiane, che qui sono anche in discussione, esse si ritrovano in quella psicologia archetipica che, attraverso Hillman, ha convenientemente riconosciuto il proprio debito a Henry Corbin.