Perché l’analista sperimenta angoscia?

Tratto da Giorgio Antonelli, Origini del fare analisi, Napoli, Liguori, 2003

Bion sostiene che se l’analista sperimenta angoscia, ciò segnala che si sta rifiutando di sognare, e cioè sta resistendo alla passe di materiale onirico del paziente, non lo sta introiettando. Potremmo allo stesso titolo invertire la sequenza e affermare, altrettanto legittimamente, che se l’analista non sogna, questo non sognare significa l’angoscia stessa dell’analisi. L’analisi entra nell’angoscia là dove lo psicoanalista non la sogna. Se l’analisi non sogna, l’analisi non c’è. Ora, a me sembra che il pronunciamento di Bion, secondo il quale l’analista deve sognare l’analisi, costituisca un altro formidabile equivalente dell’enigma di Jung. Con Bion siamo intitolati a pensare che il movimento che si disegna nell’enigma di Jung, riguardi non soltanto l’analizzato, ma anche l’analista e, soprattutto, l’analisi. E’ allora l’analisi, propriamente, a diventare ciò che accade nel mezzo. Col suo dream-work Bion ridefinisce, inverte, ridireziona quanto Freud ha a suo tempo definito come lavoro del sogno. Per Freud si tratta del movimento che porta dal materiale inconscio (e in quanto tale anche incomprensibile) al sogno e da questo, dal disfacimento di questo, alla comprensibilità. Bion invece intende il lavoro del sogno come una operazione di immagazzinamento del materiale conscio. In termini tecnici tale immagazzinamento è «idoneo alla trasformazione dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva». Se per Aristotele, continua Bion, e per l’Aristotele citato da Freud, il sogno è il modo in cui la psiche lavora durante il sonno, per lo psicoanalista inglese il sogno è il modo in cui la psiche funziona, e funziona meglio, quando è sveglia.

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Giorgio Antonelli