in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto
La violenza dell’immagine nell’incubo è tale che ne portiamo i segni nella vita da svegli, per lungo tempo. A volte parlare di un incubo, “ri-incontrarlo” nello stato di veglia, esorcizza in parte la quota emozionale negativa che proviamo. La sua funzione principale, è scuotere una coscienza che si attarda pigramente in una ripetizione di atteggiamenti e comportamenti che bloccano l’evoluzione del soggetto. Ci costringe a sperimentare l’orrore dell’impotenza ad agire, e la sovra determinazione di una “forza” che opera dentro di noi, a volte contro noi stessi. L’incubo ci costringe a fuggire, o a guardare in faccia la presenza oscura di forze ctonie. Ci salva lo stato di veglia: a volte, urlando, torniamo nel confortante “regime diurno delle immagini”, svegliandoci. Il giorno ci restituisce l’illusione necessaria: quella sicurezza che ci fa sentire ogni cosa al suo posto, che possiamo riprendere il controllo della situazione, che nulla è cambiato. E il cambiamento è la lotta più dura da affrontare in un processo evolutivo. L’incubo cambia con violenza la nostra rassicurante ed idealizzata immagine di noi stessi. Ci mostra la nostra fragilità, la presenza del male, e l’ineluttabilità del conflitto.
Nello studio di Roscher sugli dei della Grecia, Pan è visto come il demone dell’incubo, in ognuna delle forme che assume. Hillman, sostiene la tesi nella sua opera Il mito dell’analisi (1991) che “Gli dei rimossi ritornano come nucleo archetipico dei complessi sintomatici” e propone una rifondazione delle definizioni di comportamenti, che oggi stanno sotto la classificazione di psicopatia e psicopatologia tipiche del linguaggio psichiatrico del DSM, in termini mitologici, poiché considera e legge i miti come “espressioni metaforiche (e primitive) di scienza naturale, metafisica, psicopatologia e religione”.
Nella prospettiva della psicologia archetipica, quindi, le divinità dell’antichità, tornano e sono presenti in noi, tra noi, sotto forma di azioni, sintomi, complessi. Esse in realtà non sono mai andate via: sono state rimosse, confinate nella psicopatologia, dalla supremazia dell’Io. Estromesse da quel “regime diurno delle immagini” per utilizzare uno spunto dovuto a Gilbert Durand, il quale, nel suo straordinario studio sull’immaginario, mostra le articolazioni che governano l’esperienza dell’essere in due regimi centrali e ben definiti: quello, appunto, diurno e quello notturno.
E così, “l’arrivo” di Pan getta nello scompiglio il precostituito “ordine razionale” delle cose, poiché ridesta in noi i temi dell’istinto primordiale, di una sessualità naturale collegata al panico, dell’atto violento nel duplice aspetto, dell’attrazione e repulsione. Non è il dio dell’ambivalenza, dell’incertezza o, peggio, dell’ambiguità. Non ama ed odia al tempo stesso, non entra in relazione con l’oggetto: lo fa suo, lo prende, lo possiede, nell’immediatezza. La sua azione nega lo statuto ontologico dell’esistere dell’Altro. Il dio, può. É manifestazione pura di volontà e istinto, che non conosce la riflessione, il ripensamento, la mentalizzazione, intesa come rappresentazione anticipata del fare.
Invece, noi comuni mortali, nell’attrazione improvvisa ed irresistibile che ci spinge con forza verso un altro essere, dobbiamo lottare innanzitutto con noi stessi, attraversiamo la fase di “ambivalenza del desiderio”, ed agire affrontando la paura che desta la presenza dell’altro. L’Altro è testimone vivente di tutto ciò che è diverso da me. La sua semplice presenza impone il conflitto (la rottura?) dello specchio narcisistico in cui mi rifugio. L’Altro da me, è inquietante perché si pone come fonte del desiderio e si oppone ad esso, contemporaneamente, mi mostra il sembiante della sorpresa e della paura. Egli stesso è nel panico, nel terrore di esser preso, posseduto, e di perdere così, il diritto all’autodeterminazione, quel diritto ad esser-ci e a sottrarsi all’evento.
In fondo, questa è la vera violenza: essere nell’impossibilità di esercitare il diritto ad esistere. Quando c’è violenza sul corpo, è già stata consumata la violenza sulla mente. Nell’incontro si produce una tensione altissima che si risolve a volte con la fuga, oppure nella cattura e nel possesso da parte di uno sull’altro. Dunque, un dio che al suo semplice apparire, ci costringe a confrontarci con la nostra paura, anch’essa doppia: paura di noi stessi, paura dell’altro. In più, c’è la paura che l’altro ha di noi. La presenza del panico, l’attacco di panico è il segnale che si è presentato Pan, e ci ha chiesto, brutalmente, conto delle nostre paure. La paura, fondamentale barriera difensiva dall’ignoto, ci salva nelle situazioni di pericolo imminente, come la caduta nell’abisso, e ci spinge alla fuga quando siamo minacciati concretamente nella nostra incolumità, ma, come diceva il Don Juan di Castaneda, è anche, “Il primo nemico naturale che un uomo deve superare lungo il suo cammino verso la conoscenza”. Anche Hillman, sostiene che “La paura esiste per essere affrontata e vinta dall’eroe nel suo cammino verso la virilità, e l’incontro con la paura ha un ruolo preminente nelle cerimonie iniziatiche”. L’avvento di Pan ci costringe ad “uscire da noi stessi”, e sperimentare l’impotenza, l’insufficienza dell’Io, vanifica l’illusione del controllo sulle nostre emozioni, e le nostre azioni, neutralizza pro tempore l’egemonia della ragione e ci rende consapevoli dell’altera pars, in noi e fuori di noi. E come potrebbe, l’avvento – ex abrupto – di tutte queste cose non spaventarci, fino al puro terrore?
Abstract
In questo articolo si affronta un nodo centrale dell’esperienza umana: il manifestarsi di ciò che è improvviso, imprevisto, imprevedibile. Nella forma di un agire violento ed in una prospettiva mitica, così come suggerito dal Saggio su Pan di James Hillman. Partendo dal presupposto che ogni azione umana può esser letta in chiave simbolica, con un rimando al fondo mitico ed archetipico del gesto compiuto. Un parallelo tra la lettura in chiave archetipica con la lettura del raptus in chiave attuale, come gesto che si risolve spesso in una violenta sopraffazione dell’altro. Pan, il dio che collega l’uomo al suo istinto primordiale, alla sessualità, e alla morte.