in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 52, Roma, Di Renzo Editore, 2002 – Estratto
Il dolore senza nome
Un’antica leggenda indù racconta di quando tutti gli uomini erano dèi. Questi però abusarono tanto della loro divinità che Brahma decise di privarli del potere divino e di nasconderlo in un posto dove fosse impossibile trovarlo.
Fu così che il Signore degli dèi, riunitosi a consiglio con le divinità minori disse: ”Ecco ciò che faremo della divinità dell’uomo, la nasconderemo nel suo Io più profondo e segreto, perché è il solo posto dove non gli verrà in mente di cercarla”. A partire da quel tempo, conclude la leggenda, “l’uomo ha fatto il periplo della terra, ha scavato, esplorato, scalato montagne e si è immerso nei mari alla ricerca di qualcosa che si trova dentro di lui”.
I grandi sistemi spirituali sostengono che tale stato di “amnesia cosmica” abbia inizio prima ancora della nascita. La separazione dalla nostra natura divina, dal nostro “Sé profondo” secondo queste antiche tradizioni è la nostra ferita esistenziale, il nostro “peccato originale” che va lentamente trasformandosi in un dolore senza nome, una sete insaziabile di infinito, un anelito verso un’esperienza non ben definita di unità e di libertà.
Jung in molti suoi scritti descrive questo profondo desiderio che ci travaglia e vede in questa sete di totalità l’elemento propulsivo del processo di individuazione, la forza dinamica che tende a unire l’Io e l’inconscio.
Durante gli stati non ordinari di coscienza provocati con vari mezzi tra i quali la respirazione olotropica, alcune persone rivivono la propria nascita, la lotta nel canale del parto oppure lo stato intrauterino che viene descritto come “un’esperienza di beatitudine oceanica”, un momento di benessere, libertà ed espansione. Altri riescono persino a mettersi in connessione con ciò che viene chiamato “memoria cellulare del concepimento” e descrivono una particolare, intensa emozione: il profondo e diffuso dolore che si prova nel prendere forma umana. Il momento del concepimento viene vissuto come la perdita della libertà e unità originari e il dolore di essere “incarnati”, intrappolati in un corpo individuale e materiale.
Secondo quanto emerge da questi vissuti l’attraversamento del canale del parto accresce sempre di più il senso di delimitazione e confinamento in una dimensIone corporea. La nascita è quindi un passaggIo, un “portale” che dalla dimensione spirituale (transpersonale) si apre sul mondo materiale (personale).
Ricercatori spirituali
Questa sete dell’anima per la totalità di cui parla Jung, quest’immensa nostalgia per qualcosa che non ha nome descritta dalle varie tradizioni spirituali è un impulso a ri-conoscere la nostra vera identità.
La santa indiana Mirabai si esprime con queste parole: “Il mio corpo soffre, il mio respiro brucia. Vieni (O Signore) ed estingui il fuoco della separazione”. Quest’impulso può assumere le più svariate forme: da un diffuso “mal di vivere” e dalla perdita del senso della vita fino a una sua estrema manifestazione: la dipendenza da alcol, droghe, cibo, relazIoni, gioco d’azzardo, brama di potere.
Spesso chi sperimenta per la prima volta la sostanza o l‘oggetto della propria dipendenza, descrive quest’incontro come un “colpo di fulmine”, un incontro con tutto ciò che avevano sempre cercato: “sono finalmente a casa“. A volte questo primo momento viene vissuto come un‘esperienza pseudomistica, un “barlume di assoluto”, un’espansione infinita fino all‘identificazione con l‘intero universo.
Secondo quanto afferma William James nel suo libro Le varietà dell’esperienza religiosa: “La sobrietà sminuisce, discrimina e dice no, l‘ebbrezza espande, unisce e dice sì”.
Christina Grof, nel suo libro Guarire della dipendenza, definisce alcolisti e tossicomani “ricercatori spirituali” e analizza alcune tappe della terapia “I dodici passi” utilizzata dagli Alcolisti Anonimi nella cura della dipendenza da alcol, percorso da lei stessa intrapreso. Christina Grof traccia un parallelo tra le tappe principali della “guarigione” e i momenti fondamentali dei percorsi spirituali cosi come sono descritti dalle diverse tradizioni. Queste sono alcune parole del suo racconto autobiografico:
“In quei momenti ho intravisto i bagliori di uno stato di completezza in cui ciascun filo della mia esperienza sembrava improvvisamente congiungersi agli altri: tutto allora pareva andare a posto, ogni cosa acquistava significato. Ho trovato ciò che cercavo anche nell’oblio delizioso dell’alcol: i miei confini sparivano, la sofferenza svaniva e pensavo di essere libera. Finche l’alcol mi si rivoltò contro”.
Il programma terapeutico dei Dodici Passi utilizzato dagli Alcolisti Anonimi riconosce dietro la brama dell’alcol questa aspirazione alla trascendenza. Il programma definisce “malattia dell’anima” l’esperienza di chi è afflitto da qualche dipendenza e “bancarotta spirituale” quel momento in cui si tocca il fondo del proprio comportamento distruttivo e autodistruttivo.
Nella sua famosa lettera inviata il 30 gennaio 1961 a William G. Wilson, conosciuto come Bill Wilson, l’ideatore del “Programma dei Dodici Passi”, Jung scriveva: “In latino alcol si dice “spiritus”. La stessa parola, dunque, viene usata per la più elevata esperienza religiosa e per il più corruttore dei veleni. Una formula utile quindi è: Spiritus contra spiritum”. La proposta di Jung, il percorso spirituale come antidoto alla devastazione dell’alcol, può essere applicata anche ad altre forme di dipendenza: droghe, relazioni, cibo, potere ecc.