Jung e lo Gnosticismo

Jung e lo Gnosticismo, in Trattato di Psicologia Analitica (diretto da Aldo Carotenuto – in collaborazione con altri autori), Torino, Utet, 1992 – Estratto

All’edificazione del terzo regno s’oppone l’inatteso ostacolo d’un paradosso che Jung declina in special modo nei suoi seminari. Gran parte del paradosso consiste nel fatto che è la stessa coscienza compiuta a dimorare nel terzo regno e, invertendo nel modo che vedremo il segno, a destituirlo. Con l’estendersi del suo raggio d’azione, insomma, la coscienza si scopre progressivamente nichilista.

Il motivo era ben noto agli gnostici, per quanto Jung lo leghi alla filosofia orientale, e s’applica in modo specifico alla concezione gnostica della storia. Gli Ofiti ritenevano ad esempio che allorché la “rugiada di luce” (ovvero il seme pneumatico) fosse stata raccolta e assunta nell’eone dell’incorruttibilità, la storia e il mondo avrebbero con ciò cessato di essere.

Analogo significato ha la nozione di “raccolta delle semenze” intrattenuta da Teòdoto: allorché le semenze, ovvero le particelle divine immerse nella materia a causa del peccato di Sophia, saranno raccolte, ovvero ricondotte alla loro origine pleromatica, il mondo come tale scomparirà.

La storia equivale per gli gnostici all’episodio d’un racconto: il racconto della salvezza destinata agli “spirituali”. Così, nel “Trattato Tripartito”, gli “ilici” servono la causa di psichici e pneumatici per poi ritornare al nulla che sono sempre stati: essi, dice il testo, “resteranno fino alla fine per l’annientamento”. Grant, analogamente, riconosce in Basilide “una inclinazione verso una Nichtigkeit “: “alla fine ogni cosa che è quaggiù ritornerà nello stato di oblio cosmico”.

Il mondo scompare, cessa d’essere mondo, dunque, nello stesso momento in cui gli “spirituali” realizzano la piena coscienza della loro destinazione pneumatica e della natura proiettiva del mondo stesso.

Anche per Jung “il mondo ritorna al non essere in virtù d’una coscienza perfetta”. Ciò può essere inferito a partire dai processi di acquisizione della coscienza, processi che contemplano un progressivo ritiro delle proiezioni. Non possiamo sapere, afferma Jung, cosa significhi estensione massima della coscienza, non possiamo far discorso d’una “supercoscienza”, ma possiamo arguire che essa comporti un ritiro massimo delle proiezioni.

Nel seminario sull’analisi dei sogni, in corrispondenza del citato passo sui tre regni, Jung affronta lo stesso motivo dal punto di vista dei “costituenti” della coscienza, vale a dire delle quattro funzioni.

Un uomo che abbia soltanto una funzione, sostiene Jung, non ha coscienza di sé. Tale coscienza di sé ha bisogno del rispecchiamento offerto alla prima funzione da una seconda funzione. Una terza funzione offrirebbe un secondo specchio e così via.

Il fatto è, però, che non si può spingere tale processo di rispecchiamenti alle sue estreme conseguenze a meno di sconfinare nella metafisica. Si può però inferire “la possibilità di infiniti rispecchiamenti e di infinito giudizio”. Ciò, conclude Jung, ci renderebbe simili a Dio e, dunque, virtualmente morti, dal momento che ogni forma pensabile di energia risulterebbe del tutto ripiegata su se stessa e concentrata in uno spazio infinitesimale. “Finché viviamo” osserva comunque Jung “siamo ovviamente incapaci di ritirare tutta l’energia dal mondo, di ritirare tutte le proiezioni”. Il paradosso nondimeno rimane dal momento che, per Jung, l’uomo è costitutivamente chiamato a “fare coscienza”.

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Giorgio Antonelli