Recensione Antonino Ferro, Pensieri di uno psicoanalista irriverente (a cura di Luca Nicoli), Raffaello Cortina Editore, pagine 165
di Alessandro Uselli
Chi è lo psicoanalista irriverente di questo libro? Per un lettore attento la risposta non sarà così scontata.
La scena è ovviamente di Nino Ferro, didatta e past president della Società Psicoanalitica Italiana, autore originale e generoso, la cui demarcazione dalle posizioni analitiche più classiche è cosa nota, lui che per carica e prestigio avrebbe potuto invece considerarsi, come molti suoi colleghi, uno dei guardasigilli della dottrina freudiana.
Ma il vero protagonista irriverente di questo libro, a nostro parere, è il suo curatore, Luca Nicoli, lo psicoanalista che ha dialogato con Ferro pungolandolo su tutte quelle questioni che un clinico giovane non è mai pago di conoscere, specie quando davanti ha un analista considerato un fuoriclasse da gente come Glenn Gabbard e Thomas Ogden. Ma soprattutto – e qui c’è la sua coraggiosa irriverenza – mettendo sotto una lente critica gli aspetti della formazione e della cura analitica di norma considerati intoccabili.
Se per Nino Ferro è relativamente meno oneroso poter mettere in discussione l’edificio psicoanalitico, dopo lunghi anni di clinica, supervisioni e pubblicazioni internazionali, meno semplice e persino meno frequente è per un analista giovane, talora costretto a compiere un voto di obbedienza e fedeltà, il cui risultato è l’affievolimento dell’originalità e del pensiero critico e divergente. Fu Otto Kernberg in un celebre scritto a enucleare sarcasticamente i modi con cui gli istituti di training spegnevano la creatività nei candidati psicoanalisti e anche noi in un’altra occasione ci siamo soffermati sul fenomeno dell’identificazione con l’aggressore cui spesso vanno incontro molti analisti, come se purtroppo l’ortodossia fosse la malattia di cui debbono ammalarsi per poter portare a termine il proprio iter formativo.
Nicoli, che si presenta a Ferro descrivendo il presente lavoro come un “manuale di autodifesa per giovani analisti”, non lascia dubbi sin dall’introduzione su quello che sarà il tenore del libro, non preoccupandosi di fare importanti self-disclosure che potrebbero essere considerate scabrose:
“La libertà fa paura. Il desiderio di rinnovamento della psicoanalisi e delle sue istituzioni fa paura, quando trova un interlocutore che lo asseconda più di quanto la prudenza non consigli. Si rischia di andare ben oltre i limiti immaginati. Penso alla mia innata avversione per il Freud monumentale, che “ha già detto tutto”, alle sue prime ipotesi psico-neurologiche del Progetto di una psicologia, che considero (colpevolmente, direbbero alcuni colleghi) poco più di un documento storico. Penso – e lo dico a bassa voce – all’Interpretazione dei sogni che non ho mai finito di leggere, vuoi per mia pigrizia mentale, vuoi per un pizzico di narcisismo iconoclasta giovanile, vuoi per la sensazione che quello è il passato, anche se un passato glorioso e fondamentale, mentre il presente è Glen Gabbard, è Thomas Ogden, è il libro sul sogno – ormai introvabile – curato da Stefano Bolognini….” (pag XI)
Se abbiamo colto il valore di questo libro, che a più riprese sottolinea come ogni acquisizione sia un gradino che esiste per essere oltrepassato, crediamo che Ferro non potrebbe che sorridere del fatto – irriverente! – che la nostra enfasi cada non su di lui ma sul suo intervistatore.
Sue sono però le immagini forti e bellissime utilizzate per descrivere il futuro della psicoanalisi, una disciplina che dovrebbe “viaggiare con il bagaglio a mano” e non come una “lumaca costretta a trascinarsi faticosamente la sua casa” consapevole di tutti gli scontri di potere che troppe volte hanno insanguinato i luoghi dell’analisi, clinici, formativi, sociali:
“D’altronde l’analisi dovrebbe essere questo: entrare in contatto con tutte quelle nostre potenzialità a oggi impensabili, non avere città con divieti di transito, non avere città con interdizioni al passaggio, poter transitare sulle strade della nostra mente attuale e anzi concepirla in perenne espansione” (pag 56)
Ed è su questo solco che scorrono i dieci capitoli che compongono il testo, dove trovano posto questioni di teoria, di tecnica, di identità. Non saranno poche le volte in cui l’analista o il paziente curioso – così come riportato in copertina – potranno storcere il naso oppure, come è accaduto a noi, tirare un sospiro di sollievo.
Perché questo libro ci sa di libertà e di riconciliazione. Di libertà dall’ortodossia ingessante – che come sosteneva anche George Orwell in 1984 è il contrario del pensare – e di riconciliazione con la bellezza profonda della psicoanalisi. Come forse in un pittogramma – uno dei cardini della teoria del campo di Ferro di cui a lungo si parla – una sorta di nuova immagine ci si è aperta alla mente: che la psicoanalisi forse più che veri detrattori, ha persone innamorate e deluse. Sono molti difatti quelli che sentono di dover stare distanti dalla psicoanalisi non per il suo valore, di cui sono innamorati, ma per certa sua politica da cui si sono sentiti offesi, dai dogmatismi che l’hanno spesso resa una disciplina chiusa, altezzosa e talora irrispettosa.
Ma come sostiene a più riprese Ferro nel libro, l’analisi è una cosa bella, giocosa, un luogo elettivo di umanità, di affetti, di paure, di speranze, che coinvolgono per lungo tempo due persone che in fondo si assomigliano: due persone spaventate in una stanza, come poeticamente le ha definite Bion.
Le vere irriverenze alla professione analitica – e alla vita in generale – sono quelle che si spendono nella salvaguardia dello status quo, nel non avere mai dubbi, nel non criticare, nel non indignarsi, nel credere in una sola verità, nel rifiutare il diverso, nel pensare di non dover cambiare mai. Nell’essere “riverenti”.
“Io alla psicoanalisi auguro cento, cento e cento anni di vita. Sono un po’ preoccupato perché talvolta corre il rischio di continuare a ripetere se stessa, mentre credo che dovremmo seppellire molti concetti, che nella pratica clinica non ci sono più utili. Dovremmo avere il coraggio di gettare quello che non ci serve per poter utilizzare strumenti, tecniche, modalità, idee totalmente nuove, alcune delle quali potrebbero essere addirittura rivoluzionarie. Mi aspetto che il buon senso prevalga, che sia possibile, piuttosto che veder morire una psicoanalisi ingessata talvolta in una disciplina “da dinosauri”, continuare a vederla vivere, trasformata ancora una volta in qualcosa di vivo e di totalmente creativo.” (pag 153)
L’invito a leggere questo libro è un invito a farsi del bene come clinici. Alle prime armi o capitani di lungo corso, non si potrà che prendere a riferimento l’irriverenza vitale di Nino Ferro e Luca Nicoli.