I paradossi del peccato

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto

Discutere intorno al peccato è sempre un’operazione ardua, imbevuti come siamo di stereotipi e di idee moralistiche che avvolgono la nostra esistenza e ci fanno allontanare dalla vera essenza del problema. Penso che un approccio che sbarazzi il campo, fin là dove è possibile, dalle fantasie che abbiamo ereditato in dote sul peccato sia una possibilità che la nostra Psiche richiede come nutrimento per la sua tavola bandita di incoerenza, contraddizioni, ambivalenze, immagini e simboli. In tal senso, sulla scia del pensiero di C. G. Jung, riflettere simbolicamente sulle trame della Psiche e sulle relazioni tra l’inconscio personale, quello collettivo nel confronto con la coscienza, è il primo passo da compiere per guardare gli eventi che si presentano. Lo sguardo sul peccato, pertanto, sarà un vedere oltre l’esistenza, senza negarne la portata storica e sociale, con la consapevolezza che tale tema richiama la polarità del bene e del male nella sua totalità, ovvero il rapporto col Sé, partendo dalla conoscenza di se stessi: “Perciò, chi desidera avere una risposta al problema del male, così come si pone oggi, ha bisogno, per prima cosa, di conoscere se stesso e cioè della maggiore conoscenza possibile della sua totalità. Deve conoscere senza reticenza quanto bene può fare, e di quale infamia è capace, guardandosi dal considerare reale il primo e illusoria la seconda. Entrambi sono veri in partenza ed egli non sfuggirà interamente né all’uno né all’altra, se vuole vivere come naturalmente dovrebbe senza mentire a se stesso e senza illudersi” .

Partire dalla propria esistenza, dalle trame relazionali della vita e del mondo della Psiche, colloca il peccato ad un crocevia enigmatico con cui l’umano si trova sempre a fare i conti; sembra quasi che il peccato si pone come un sentiero tortuoso, anzi una strettoia, attraverso cui passare per rimanere imprigionati oppure per cogliere un senso più profondo ed ampio. In ogni caso, al di là di nuovi e vecchi peccati, forse il vero peccato è rappresentato da quello che moralisticamente viene costruito intorno ad esso: le fantasie e le verità storiche che hanno snaturato la sua specificità, dando un’idea artefatta del divino, al di là delle singole confessioni religiose: “Come ci hanno fatto pagare cara la nostra somiglianza con Dio, come ci hanno punito per essa, come ce l’hanno fatta perdere! Creati a immagine di Dio – caduti. Chi può mai credere che un buon Dio-Padre ci abbia trattato cosi!”

Svincolare il peccato dalla valenza religiosa non significa tradire la parte religiosa della Psiche, importante in ogni processo di cura e di consapevolezza psichica, ma riflettere psicologicamente sulle metafore e le storie mitiche che ruotano intorno al peccato. Avere un atteggiamento religioso permette di afferrare la complessità del problema con la consapevolezza che ci troviamo sempre di fronte al numinoso, così importante in ogni processo di cura e di trasformazione della personalità, quasi che la scintilla divina presente nell’uomo e nel creato trovasse sempre la possibilità di affermare la propria esistenza, come evento archetipico. Assumere una visione non solo personale ma anche archetipica di fronte al tema del bene e del male, vera scissione con cui confrontarsi ogni volta che si apre il sipario sul peccato, permette di dare una valenza prospettica agli eventi, partendo dalla responsabilità etica individuale dell’azione senza poi proiettare sul divino ombre e storture che appartengono specificatamente all’essere umano. Questo lo ritengo un punto fondamentale lungo l’analisi di tale fenomeno, in quanto lo spartiacque tra l’umano e il numinoso a volte è così sottile ed incerto che la coscienza si perde nei meandri confusivi, spesso impotente ed incapace a porre le dovute differenziazioni. In questo il lavoro di Jung su Risposta a Giobbe resta uno dei capisaldi psicologici in cui la sofferenza umana assurge a interrogativo che rimane aperto al mondo dove non esiste risposta certa ed assoluta. Allora l’esperienza di Giobbe, partendo dal dato empirico della sofferenza fisica e spirituale, umana e storica, nella sua tragicità, rappresenta solo uno dei poli dell’asse Io-Se; l’altro polo è dato dal numinoso che si impone all’umano con tutte le sue contraddizioni, ambivalenze e paradossi che forse risulteranno tali dal punto di vista della coscienza dell’Io, ma potrebbero essere archetipicamente connessi e specifici del Se, così come le spine appartengono alla rosa ed una rosa senza spine perde, nella sua esistenza, la propria essenza: “Il nocciolo della storia è la sofferenza di Giobbe e la risposta che egli riceve da Dio. Ma questo non è assolutamente una risposta. Dio non fornisce alcuna spiegazione per le terribili sofferenze di Giobbe. Il libro di Giobbe è naturale proprio perché tenta di guardare in faccia la catastrofe, la miseria, la malattia e la sofferenza, senza ripiegare su qualche spiegazione di tipo moralistico o di altro genere. La storia racconta soltanto di come Dio tormenti gli uomini senza fornire giustificazione alcuna.”

Le immagini della storia di Giobbe albergano nei cuori degli esseri umani, ne costituiscono una piattaforma che spesso accomuna e che fa sentire la tragicità dell’essere umano, costretto a vivere il limite della sua esistenza con la consapevolezza dell’anelito della sua essenza ad andare oltre i confini in cui è stato gettato, ma non caduto. Tali immagini permettono anche di intravedere l’incapacità del collettivo (gli amici e le persone accanto a Giobbe) che lo riteneva un peccatore e per tale motivo castigato e punito. Il collettivo impone una propria morale agli eventi che accadono e spesso risulta distonico rispetto alla sofferenza del singolo, quasi che fosse più facile applicare in maniera automatica il modello del pensare causa/effetto degli eventi psichici, saltando a piè pari l’autenticità della sofferenza umana e rinviando il tutto alla coppia peccato/punizione. Tutto ciò imprigiona il peccato nella gabbia dorata della punizione, nella certezza umana che invece vacilla nel confronto col numinoso; la punizione diventa la soluzione al problema del peccato e “siamo così ossessionati dal trovare soluzioni che ci dimentichiamo del problema.” Il vero problema è che siamo prigionieri di un pensiero monoteista che ha perso il contatto col divino nella molteplicità delle sue manifestazioni e che, dietro la maschera di una pseudo libertà, si è invece così incatenati alle ombre di un materialismo e del consumismo del buttare, per cui: “L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta anche se stessa come una umanità da buttar via”. La storia di Giobbe riporta indubbiamente al tema della polarità, di una morale collettiva che fa del giudizio un’azione punitiva distaccata dall’ascolto della comprensione e a volte della compassione, arenata in un adattamento in cui la preziosità dell’autenticità della singolarità viene relegata nella sfera dell’individualismo, alimentando una sorta di confusione di torre di Babele, per cui: “Il linguaggio non diventa più la dimora dell’essere” , ma valore privo della sua potenza archetipica e gli dei metafore vuote, addormentati nella morsa stretta del sintomo che attanaglia il respiro dell’Anima individuale e dell’Anima mundi.

Abstract

L’autore, basandosi sullo scritto di C. G. Jung Risposta a Giobbe, mette in evidenza il senso psicoanalitico del peccato nella sua componente irrazionale, spogliando tale argomento da connotazioni moralistiche e cogliendo l’intima essenza di tale tema in una dimensione simbolica ed immaginale. In tal senso il peccato viene visto come una possibilità che la Psiche mette a disposizione dell’umano per ricordargli le proprie radici spirituali, lungo il processo di trasformazione alchemica di unione degli opposti, in particolare del rapporto tra materia e spirito. In questa ottica il peccato rimanda direttamente all’incontro dell’umano con i paradossi della Psiche, paradossi che hanno sempre affascinato e inquietato la coscienza occidentale. L’Autore – evidenziando i limiti di tale forma di coscienza e di una modalità collettiva di pensare – pone in luce quanto questi elementi possono ostacolare la comprensione del processo di individuazione, relegando l’individuo e il peccato a una connotazione moralistica e non etica.

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Ferdinando Testa