Jung e l’analisi del sogno
Jung e l’analisi del sogno

Tratto da Giorgio Antonelli, “Seminario sul sogno”, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 54, Roma, Di Renzo Editore, 2003

Suona alquanto paradossale che Jung faccia riferimento al Talmud per sottolineare questo diverso modo di considerare il sogno rispetto a Freud. Il sogno, si legge nel Talmud, è la sua interpretazione. E risulta ancora più paradossale rilevare nella diffidenza di Freud nei confronti del sogno un’orma, una cifra inequivocabilmente cristiana. Basti soltanto pensare alla corrispondenza tra Barsanufio e Giovanni di Gaza (VI sec.) dalla quale si evince che l’immagine onirica di Cristo può nascondere una frode del diavolo. Il confronto sul sogno, tuttavia, anche in ragione di quanto negativamente precede, non può non assumere valenze religiose. La parola che per gli ittiti valeva sogno, teshas, equivale a quella che per i greci significava dio. Per il bizantino Achmet, vissuto nel X secolo, autore di un Oneirokritikon, il sogno si lascia definire come un soggiorno di Dio in noi. Un modo, diremmo noi, di veicolare la cifra della sua estaticità. Gli esempi potrebbero agevolmente moltiplicarsi. Ciò che però appare interessante rilevare nella citazione talmudica di Jung, è quel suo far risuonare i termini freudiani Traum e deutung in un significante regime di separazione: «Der Traum ist seine eigene Deutung». Ciò che separa il sogno (Traum) dalla sua interpretazione (Deutung) è appunto la concezione di Freud secondo la quale il sogno a suo modo inganna. Quello che per l’uno (Freud) è facciata, das Uneigentliche, l’inautentico, per l’altro (Jung) è il contenuto, l’autentico.

L’affermazione di Jung serba anche una chiara valenza operativa. Diciamo intanto che non si dà propriamente un’interpretazione del sogno, dal momento che il sogno, propriamente, interpreta se stesso. Qui entra in gioco anche uno dei protagonisti dell’approccio di Jung, così come è espresso, in modo particolare, nel suo seminario Dream Analysis, la natura. La natura, dice Jung, non è mai diplomatica: un albero è un albero e non può essere scambiato per un cane. Per ripetere Gertrude Stein un albero è un albero è un albero. In altri termini l’inconscio non produce travestimenti. Siamo noi, i sognatori, a travestirci. Jung elabora anche una peculiare spiegazione del perché si può essere indotti a pensare che il sogno travesta. Tale induzione egli ritiene di poterla ascrivere all’influenza delle pazienti di Freud. La teoria di Freud sarebbe stata costruita dalle sue pazienti. E, tuttavia, dove la paziente riempie del proprio pensare la mente del proprio analista, s’ingenererebbe una fonte d’errore. La fonte d’errore è costituita, afferma Jung, da tali dinamici desideri femminili. Jung offre anche altre, e direi più probanti, spiegazioni della nozione che vuole il sogno essere un travestimento. Anche se non lo dice in modo diretto, e appare alquanto singolare che non lo faccia, è dalle parti della pratica dell’immaginazione che ripara la risposta al perché della concezione freudiana del sogno.

Che il sogno sia come le piante, così dice Jung, un prodotto naturale, una manifestazione fisiologica, utile per la diagnosi, serba implicazioni notevoli sul piano della sua analisi. Il fatto che il sogno sia un Naturprodukt ha inoltre diretta rilevanza per la questione etica. La categorizzazione bene/male appartiene al sogno? Nel senso di una intenzionalità, ad esempio? Jung lo nega. Al sogno in quanto tale, naturale cioè, non ineriscono intenzioni etiche. In ciò Jung si discosta dal dettato del Talmud cui pure, come s’è visto, aveva fatto riferimento, paradossalmente, contro Freud. Si trova infatti scritto nel Talmud che chiunque trascorra sette giorni senza sognare merita il nome di malvagio. Ciò suona perfettamente comprensibile se si pensa ad esempio che, nella tradizione ebraica, il Signore nasconde il volto, ma parla in sogno. Perché Jung ritiene opportuno insistere sull’amoralità del sogno? Penso che una possibile risposta al perché dell’insistenza junghiana sull’amoralità del sogno possa riparare dalle parti di un mantenimento della sua alterità. Il sogno ci offre la possibilità di una vicinanza all’alterità.

Essere morali, essere abitatori dei nostri luoghi, implica il mantenimento dell’alterità. Ciò significa che analizzare un sogno si costituisce come operazione essenzialmente estatica nei confronti dell’Io. L’analisi del sogno implica per ciò stesso un’estasi dell’Io. Diversa invece appare la posizione dell’Io là dove si tratta di interpretare. Quando interpreta, l’Io non estatizza. L’interpretazione è a suo modo un sintomo, cioè un accadere che rinforza l’Io. Quello che Jung chiede al sognatore è invece di mettere al centro l’immagine. E, diciamo così, di far ruotare l’analisi, di farla circumambulare intorno a quel centro. Su questo punto Jung è del tutto esplicito. La tecnica delle libere associazioni si allontana dall’immagine del sogno. In opposizione a questo movimento tecnico freudiano Jung parla di un procedere concentrico. È tale procedere concentrico a prendere il nome di amplificazione. Alla sua origine c’è, da parte dell’analista, un assoluto non sapere. Una iniziale, iniziatica, negativa capacità.

Tèchne, questa «concentrica» di Jung, che molto ricorda il modo gestaltico di affrontare il sogno che non c’è, il sogno che non entra nel setting, il sognatore che non sogna, il sognatore mancante. Lo psicoterapeuta gestaltista, James Simkin nella fattispecie, chiede al sognatore che dice di non sognare di parlare col sogno che non c’è. Ancora meglio, gli chiede di mettere su una sedia, vuota, il sogno che non ricorda e di parlargli. Anche in questo caso, come si vede, la sedia vuota rimanda a quel Mittelpunkt, quel centro, nel quale Jung chiedeva al sognatore di mettere l’immagine onirica (ricordata). Si diventa ciò che accade nel mezzo, suona uno dei più misterici pronunciamenti di Jung, l’enigma fondante della sua pratica analitica, l’enigma odoroso di tèchne. Si diventa ciò che accade nell’intermondo, nel metaxù, nel barzakh, nel bardo, nel setting analitico. Il sogno è appunto della natura di ciò che accade nel mezzo. Si diventa, insomma, ciò che accade nel sogno. Si dà setting a condizione che si accada nel sogno. Si dà setting a condizione che l’analista sogni l’analisi.

La tèchne junghiana favorisce, induce, promuove, provoca, nei confronti del sogno, movimenti centripeti, o almeno potenzialmente tali, mentre rifugge da quelli centrifughi realizzati dalla libera associazione. La tecnica freudiana non sembra insomma rispettare l’alterità del sogno. Va anche detto che tale alterità si trova perpetuamente nelle nostre vicinanze, dentro le nostre vicinanze. Jung ritiene in effetti che la distinzione sogno/veglia sia alquanto relativa. La notte è soltanto il luogo ideale dell’apparizione del sogno. Ma anche di giorno si sogna. Anzi, a dire il vero, non facciamo altro che sognare. Vero è anche, però, che non ce ne accorgiamo. Perché? In virtù della luce intensa della nostra coscienza diurna. È questa luce a interrompere il nostro perpetuo sognare. Questo modo di concepire l’atto del sognare fa il paio con la concezione dell’eccezionalità, dell’intermittenza, della contronaturalità quali cifre costitutive di quell’enigma, di quel mistero, di quel sacramento dunque, che per Jung è la coscienza.

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Giorgio Antonelli