Duello onirico nr 4 (postumo): Lacan e Freud

lacanfretratto da Giorgio Antonelli, “Duelli onirici. Fulminea storia della psicoanalisi dal punto di vista del sogno”, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 56, Roma, Di Renzo Editore, 2004

Se nessun interprete di sogni potrà mai pensare di terminare la catena degli onirocritici, così come, stando a Jung, nessun interprete potrà mai pretendere di dire a chi lo interpella cosa significhi il suo sogno, dubito che qualcuno possa dire di averla iniziata. Se di duello si tratta, poi, dubito che qualcuno possa veramente vincerlo. Il duello resta in piedi e i duellanti semplicemente si succedono. Il discorso del duello persiste e al suo cospetto i soggetti vengono meno. Dubito, inoltre, che il discorso del duello ammetta eccezioni. Il dubbio, se ce n’è uno, ha come oggetto, ovviamente, la persona analizzante di Freud, di cui si può dire che sia l’unico a poter accampare la pretesa di aver iniziato la catena o, almeno, una catena.

A questo punto, per dirimere la questione, si tratterà di prendere in considerazione quello che Lacan ha chiamato il sogno dei sogni, il sogno iniziale e, aggiungerei, il sogno iniziatico di Freud (e del novecento psicoanalitico e non), il sogno dell’iniezione di Irma, datato 24/25 luglio 1895. Data decisiva quante altre mai nella storia della psicoanalisi, perché in quell’interstizio, in quell’intermondo di notte e giorno, si svelò a Freud, così egli scrisse al suo testimone Fliess, il segreto del sogno. E si svelò, singolare coincidenza, nella casa di Bellevue dove, così scrive Freud, tutto accade all’improvviso. Un eccellente viatico, questo, se si pensa che Bellevue tanto ricorda sonoramente quella (une) bévue (cantonata) con cui Lacan ritraduce l’Unbewusst (inconscio) di Freud, il Freud dei lapsus, degli atti mancati, dei motti di spirito.

Si potrebbe dire, con la ragione di poi (perché la ragione, come ci ha anche insegnato Hume, viene sempre dopo), che il nome del luogo diceva la luce della cosa psicoanalitica e avrebbe potuto dire anche altro se si considera che quello stesso giorno, il giorno iniziatico della psicoanalisi, il 24 luglio 1895, Freud scrisse una lettera a Fliess invocandolo, in greco antico, quale demone, suo demone, genio tutelare, demonio e, insomma, passeur, testimone della nascita della psicoanalisi. Circostanza che non mi sembra esser priva di relazione con la tradizione onirocritica antica e che ci induce a ripensare Fliess quasi come a Sogno nell’accezione di Omero. Circostanza, inoltre, che, ci introduce quanto meglio non si potrebbe al sogno dell’iniezione di Irma.

Freud rimprovera in sogno Irma, che nella realtà è sua paziente nonché amica di famiglia, di non accettare ancora la soluzione (la cura). Irma gli risponde di avere dei dolori alla gola, allo stomaco e al ventre. Freud le ispeziona la bocca scorgendovi, tra l’altro, una grande macchia bianca, dopo di che chiama il dottor M. per una visita di conferma. M. dice che c’è un’infezione, che però non importa, perché soppraggiungerà una dissenteria e il veleno sarà eliminato. L’infezione deriva dall’iniezione fattale tempo addietro da Otto, amico di Freud, con una siringa probabilmente non pulita.

Il sogno appare chiaro a Freud, almeno riguardo agli avvenimenti cui si lega, anche se, significativamente, è in relazione alla sua analisi che egli formula, in nota, l’ipotesi dell’ombelico del sogno, un indecidibile direi io, un punto di insondabilità che lega il sogno all’ignoto. Il punto che, una volta raggiunto dall’interprete, rimette tutto in discussione, getta tutto di nuovo nel caos, cioè in un’apertura indefinita. Questo del resto vuol dire caos, una bocca spalancata che desidera. Il senza confini che ingoia il confine dell’Io. Il sogno, concordemente pensava Freud, non è altro che una psicosi. Pensiero mirabile se non fosse per il fatto che si tratta, aggiunge Freud, un Freud che si appresta ad abbandonare la sua avventura terrena, di una psicosi innocua.

Nel sogno entriamo tutti noi sognatori nella nostra e non nostra, personale e universale, psicosi. Metafora di ciò che accade quando la geografia dell’Io si confronta con la geografia del sogno e vi si trova destituita. E allora il sogno assume le fattezze di quel macigno che Sisifo mai arriva a posizionare una volta per tutte, perché da su deve trascinarlo giù e una volta giù deve riportarlo su. La chiarezza del sogno dell’iniezione si traduce nel desiderio di Freud di essere assolto da ogni responsabilità per lo stato di salute di Irma. E si tratta di un desiderio che comunque si stenta a ritenere veramente inconscio. Del resto, se un sogno appare così chiaro, ciò accade perché c’è stata una passe, un passaggio da inconscio a preconscio. La responsabilità il sogno l’ascrive al dottor Otto e alla sua siringa sporca. Un caso di spostamento, evidentemente: come non vedere, in Otto, agitarsi la presenza colpevole di Freud? Non sorprende che Garma abbia rinvenuto nel sogno dell’iniezione di Irma un esempio evidente di soluzione fittizia dei conflitti psichici.

A duellare da interprete con l’interpretazione di Freud è Lacan nel secondo dei suoi seminari. Ciò che è in gioco è la passione dell’analista, il desiderio dell’analista, l’ambizione di riuscire, l’ambizione di guarire con la psicoanalisi, tutti elementi che inducono Lacan a leggere la siringa quale rappresentante del controtransfert. Il controtransfert, diciamo così, ma Lacan non lo dice così, per quanto sia il critico per eccellenza della direzione controtransferale della cura, sporca l’analisi. Irma diventa a suo modo l’onirica obiezione alla legittimità del controtransfert, legittimità che la psicoanalisi, in particolare a partire dall’articolo del 1950 di Paula Heimann, tiene per acquisita. La colpevolezza di Freud ripara dalle parti del controtransfert.

Un anno dopo l’articolo della Heimann, Lacan interviene sul transfert riesaminando il caso di Dora. Perché prenda le mosse di lì, lo mette in chiaro quando afferma che quello di Dora “rappresenta, nell’esperienza ancora nuova del transfert, il primo caso in cui Freud riconosce che in esso l’analista ha una parte”. Dopo Irma, potremmo dire, è la volta di Dora. E anche qui Freud è colpevole. Colpevole di non essere stato all’altezza di quel desiderio che ha creato la psicoanalisi. Nel caso di Dora la siringa sporca si è spostata dalle parti del signor K.. Freud, a motivo del suo controtransfert, si sarebbe mosso un po’ troppo al posto del signor K., insistendo sull’amore che il signor K avrebbe ispirato a Dora. Di cosa sarebbe colpevole in definitiva Freud? Sostenere che Freud si sia sporcato con il proprio controtransfert è ancora poca cosa. Freud è colpevole di non essere stato all’altezza del desiderio dell’analista, all’altezza dello svolgimento del suo ruolo di analista che è quella di occupare una posizione zen, vuota, morta, la posizione di un “non agire positivo”. In altri termini è il meno di essere dell’analista a costituirsi come il vero motore dell’analisi. Il che evidentemente non quadra affatto con la realtà del controtransfert.

Qual è allora, secondo Lacan, il senso del sogno dell’iniezione di Irma? Il fatto che con esso Freud si stia rivolgendo a noi, ovvero, se leggo bene, a Lacan stesso, perché si faccia suo passeur, testimone del suo approdo interpretativo in fatto di sogni. Il che accade, perché Lacan mette in bocca a Freud il senso del suo sogno facendolo parlare a noi, facendosene per noi semplice scriba. E inizia Freud, il Freud trascritto dallo scriba Lacan, dicendo di essere “colui che vuole essere perdonato di aver osato cominciare a guarire questi malati, che finora non si voleva comprendere e che ci si vietava di guarire … colui che non vuole esserne colpevole” e, ancora, di non essere “che il rappresentante di quel vasto, vago movimento che è la ricerca della verità”, movimento nel quale l’Io di Freud si cancella. Dopo di che conclude, questo Freud che ci parla attraverso Lacan, con le seguenti parole: “Non sono più nulla. La mia ambizione è stata più grande di me. La siringa era senza dubbio sporca. Proprio nella misura in cui l’ho troppo desiderato, in cui ho partecipato a questa azione, in cui ho voluto essere, io, il creatore, non sono io il creatore. Il creatore è qualcuno più grande di me. È il mio inconscio, è la parola che parla in me, al di là di me”.

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Giorgio Antonelli