a cura di Diego Marconi. Testo tedesco a fronte e traduzione italiana di Marilena Andronico. Roma, Donzelli, 1996
“Il filosofo”, scrive Wittgenstein “aspira a trovare la parola liberatrice, cioè la parola che ci consente infine di concepire ciò che fino ad ora ha gravato, inafferrabile, sulla nostra coscienza”. E se in luogo di “filosofo” dicessimo “psicoanalista”? Non aspira forse anche lo psicoanalista a pronunciare la parola liberatrice?
Si tratta d’un breve testo rimasto fuori dal cosiddetto “Big Typescript” edito nel 1969 e noto col titolo “Grammatica Filosofica” (pubblicato in italiano nel 1990 per i tipi della Nuova Italia).
Sappiamo che per Wittgenstein i problemi filosofici sono problemi linguistici, ma è interessante constatare come in questo breve lavoro tale problematica acquisti anche valenze psicodinamiche a partire, appunto, dal linguaggio impiegato. Nel paragrafo di apertura, ad esempio, Wittgenstein sostiene che la difficoltà della filosofia non è di ordine intellettuale (non è la difficoltà intellettuale delle scienze) ma è “Schwierigkeit einer Umstellung” (difficoltà di cambiare atteggiamento).
Si tratta, aggiunge il filosofo austriaco, di superare le resistenze della volontà. In questa proposizione (“Widerstände des Willens sind zu überwinden”) si sente la distinta eco linguistico-tematica di Schopenhauer, Nietzsche, Freud e, addirittura, Rank. La eco, insomma, dell’equazione nietzscheana o, se si vuole, schopenhaueriano-nietzscheana della psicoanalisi. Sembra quasi che in quell’überwinden, un verbo così tedesco, sia da rintracciare qualcosa come un Übermensch linguistico, un oltreuomo grammaticale, uno che, a partire dal famoso assunto del filosofo di Zarathustra, sa veramente che crediamo in Dio perché esiste la grammatica e procede oltre un tale inganno, contro quelle che Wittgenstein chiama “trappole del linguaggio” (quelle stesse nelle quali Nietzsche riteneva si fosse impigliato Descartes).
Sembra corroborare questa lettura in chiave psicodinamica quanto Wittgenstein afferma poco dopo. “Il lavoro sulla filosofia” scrive “è in verità più un lavoro su se stessi”. Non solo. Uno dei compiti o delle aspirazioni attribuiti al filosofo assimila quest’ultimo, malgré Wittgenstein, allo psicoanalista.
“Il filosofo”, scrive Wittgenstein “aspira a trovare la parola liberatrice, cioè la parola che ci consente infine di concepire ciò che fino ad ora ha gravato, inafferrabile, sulla nostra coscienza”. Se in luogo di “filosofo” dicessimo “psicoanalista”, la frase non si caricherebbe di alcuna forzatura. Non aspira forse anche lo psicoanalista a pronunciare la parola liberatrice, das erlösende Wort? La parola che interpreta ad esempio, la parola che mantiene la dialettica analitica, la parola che apre, la parola piena o, anche, il silenzio che apre, il silenzio pieno, il silenzio che immagina.
Un altro aspetto che lega la filosofia, così come la pensa Wittgenstein, alla psicoanalisi è la sua vocazione distruttiva, ovvero, come mi piace dirlo, la sua vocazione al deserto. “Tutto ciò che la filosofia può fare” scrive Wittgenstein “è distruggere idoli”. Distruggere idoli significa non crearne di nuovi. Il deserto va vissuto. E’ ciò che Wittgenstein chiama Abwesenheit eines Götzen, assenza di un idolo.
Ora, a me sembra, che il setting analitico sia appunto il luogo dove tale assenza di un idolo è possibile sperimentarla. La stessa proposizione secondo la quale “tutta la nostra filosofia è rettifica dell’uso del linguaggio”, così tipicamente wittgensteiniana, mi sembra un incognito ma potente invito a un modo di fare analisi del profondo. Wittgenstein parla dell’irretimento linguistico, grammaticale degli uomini più o meno con la stessa intensità con cui Reich parla di corazza caratteriale, tanto per fare un esempio psicodinamico. La pratica originaria delle libere associazioni potrebbe forse essere riconsiderata in funzione della sua cifra di liberazione dall’irretimento, dalla volontà di trappola grammaticale che sembra animare gli uomini in generale.
Il programma wittgensteiniano “dobbiamo dissodare l’intero linguaggio” suona come possibile monito a tutti i cultori di psicologia del profondo, a partire, se si vuole, da quella stessa parola, “profondo”, che ne definisce la disciplina. Potremmo in altri termini pensare al linguaggio della psicodinamica come alla sua peculiare resistenza. Hillman ha già iniziato a farlo per conto suo e lo ha ad esempio ribadito nel suo The Soul’s Code.
Un’altra possibile applicazione, peraltro evidente, della grammatica à la Wittgenstein mi sembra essere costituita dai giochi e dai copioni analizzati da Eric Berne. L’analogia con i giochi linguistici del filosofo austriaco non manca d’una certa cogenza e andrebbe ulteriormente indagata. Penso in particolare alla nozione wittgensteiniana di trappole del linguaggio. “Il linguaggio” scrive Wittgenstein “ha pronte per tutti le stesse trappole: la straordinaria rete di strade sbagliate ben tenute. Così vediamo una persona dopo l’altra percorrere le stesse strade e già sappiamo dove uno girerà, dove proseguirà dritto senza notare la deviazione, ecc. ecc..”
Quale rimedio propone Wittgenstein? Un rimedio che può essere agevolmente letto sub specie psychoanalytica. “Dunque” scrive “io dovrei mettere dei cartelli là dove si diramano le false strade, che aiutino a passare sui punti pericolosi”. E’ Wittgenstein stesso, comunque, a riconoscere l’analogia col metodo psicoanalitico là dove sostiene che occorre ricostruire i percorsi di pensiero sbagliati al punto da condurre chi sbaglia a riconoscere che sì, proprio in quel modo (errato) aveva inteso. Perché l’interlocutore di turno si convinca del proprio errore occorre insomma che riconosca nella ricostruzione à la Wittgenstein “l’espressione del suo modo di sentire”. L’espressione è giusta “solo se egli la riconosce come tale”.
Si è chiesto Wittgenstein come è possibile che tale riconoscimento? Come è possibile in altri termini che l’interlocutore di turno si convinca? E si tratta qui d’una problematica, quella della convinzione come fondamento del sapere psicoanalitico, ampiamente affrontata da Ferenczi. Occorre Gemeinschaft, per dirla con Freud, synousìa, per dirla con Socrate, Platone e Proclo, ovvero comunanza, relazione, occorre il setting analitico.
Wittgenstein è singolarmente vicino a una tale impostazione del problema quando afferma che il conflitto (si badi bene: il conflitto) in cui si versa nelle riflessioni logiche è analogo al “conflitto tra due persone” (si badi bene: due persone) “che hanno stipulato un contratto” (si badi bene: un contratto) “le cui ultime clausole sono state scritte con parole facilmente fraintendibili, mentre i chiarimenti di quelle clausole spiegano tutto in modo adeguato”.
E’ ovvio che nella metafora immaginata da Wittgenstein vige uno scarto tra i due contraenti che deve essere ricomposto attraverso una passe di effettivo sapere, di sapere grammaticale. Uno dei contraenti è in difetto di sapere nei confronti dell’altro. Wittgenstein dice che il primo “ha la memoria corta” (si badi bene: la memoria) e di conseguenza “dimentica continuamente i chiarimenti, fraintende le condizioni del contratto e continuamente incontra difficoltà”. Cosa deve fare l’altro contraente (si badi bene: l’altro). L’altro, conclude Wittgenstein deve sempre di nuovo ricordare al contraente dalla memoria corta i chiarimenti del contratto e “rimuovere le difficoltà”.