Ci serve per legare passato, presente e futuro
La Repubblica, 06/06/1994
Se chiedessero agli uomini che cosa è più importante di salvare se stessi, come psicologo non avrei alcun dubbio circa ciò che bisognerebbe rispondere: la propria identità.
Ognuno di noi struttura una modalità di esistenza e forgia una immagine di sé che si costruisce e si evolve nel tempo. Essa si differenzia -questa almeno dovrebbe essere la tensione- dalle richieste del collettivo e da tutte le forme di omologazione, individuandosi, dunque, come una entità unica e irripetibile, ben diversa da tutte le altre. Questa identità, dicevamo, si struttura nel tempo: ciò significa che noi sappiamo di esistere e percepiamo noi stessi come essere indivisibili e diversi da ciò che ci circonda, perché abbiamo sviluppato un senso di continuità dell’esperienza della coscienza: non solo io sono diverso da ciò che sono oggi, in quanto cioè esiste una continuità tra le mie esperienza passate e la mia attuale identità, perché se non avessimo la possibilità di conservare le tracce della nostra esperienza passata e di utilizzare per relazionarci al mondo, non esisterebbe un’identità stabile, con una storia, un presente e la possibilità di proiettarsi in un futuro, di progettarlo.
Le impressioni, gli stimoli, le esperienza sono tante e mutevoli, ma è grazie ai processi mnestici che possiamo registrare e immagazzinare le percezioni, collegare gli eventi, sfruttarli in sequenze aventi significato, trasformare insomma una serie indefinita di eventi in un percorso esistenziale dotato di senso. In tale prospettiva possiamo dire che la nostra identità è unicamente la costruzione della nostra memoria. Si può capire allora il senso di panico che può sopraffare chi abbia la sensazione di dimenticare alcuni particolare, anche le cose più banali, che dovrebbe invece ricordare. La paura non scaturisce tanto dalla dimenticanza in sé, quanto dall’oscura minaccia di poter perdere il senso di consequenzialità che lega passato, presente e futuro, il ritmo di una vita che procede in modo rettilineo e lineare. In questa prospettiva noi parliamo della cosiddetta crisi di identità.
Memoria di identità sono intimamente connesse e da un punto di vista psicoanalitico le memorie, patrimonio del nostro passato, sono rivelatrici del nostro assetto psicologico profondo, le uniche depositarie dei nostri reali affetti, quegli affetti che l’oblio (la cosiddetta rimozione) mantiene oltre il perimetro della coscienza. Le nostre debolezze, i famigerati lapsus, gli atti mancati, le dimenticanze, sono fenomeni che provano il potere dei ricordi quando ad essi siano associati degli affetti contrastanti. In altre parole la memoria fonda la nostra identità, la pone a confronto con le suggestioni più arcaiche della nostra vita, con gli affetti rimasti sepolti, che non abbiamo mai avuto la forza di accettare.
La memoria ci viene incontro definendo il nostro particolare modo di relazionarci agli altri attraverso un bagaglio di ricordi legati a determinate emozioni. Proprio questo legame tra ricordi e emozioni fa sì che anche le vite vissute assieme, come quelle di due fratelli, non vengano mai ricordate allo stesso modo. La memoria delle esperienze trascorse è così personale che può addirittura contrastare con i ricordi di chi ha condiviso parte della nostra stessa esistenza. Proust è il più celebre fra gli scrittori che hanno celebrato la memoria come fonte della propria identità, poetica oltre che personale. La ricerca del tempo perduto diviene allora la costruzione di una identità perduta. Si tratta di trasferire nel presente quelle suggestioni del passato che hanno in modo indelebile permeato l’esperienza del soggetto, gli odori, i sapori a cui è rimasta associata una pena o una gioia, o un senso di benessere profondo: la ricerca della memoria per ricomporre i tasselli di quel mosaico meraviglioso che è la vita affettiva di un individuo. Anche il procedimento analitico si serve di un recupero della memoria per investigare le dimensioni affettive celate o rimosse. In genere i film di Hollywood (come ad esempio ”Io ti salverò”), dovendo naturalmente spettacolarizzare la realtà, ci propongono storie di analisi inversosimili, in cui il recupero della memoria si pone come evento risolutivo di una nevrosi. In realtà le cose non vanno proprio così, perché non si tratta della ricostruzione storica di un passato costellato di eventi traumatici che occorre depotenziare, quanto piuttosto della restituzione di un senso alla ‘narrazione’ che il paziente identifica con la propria storia personale.
La crisi di identità può insorgere anche nelle fasi di transizione da una tappa all’altra del nostro percorso di sviluppo. Dinanzi a un nuovo progetto di vita, a nuove richieste di adattamento psicologico, ecco la crisi, vero e proprio momento di iniziazione alle realtà incognite a cui occorre rispondere. Ogni passaggio da un’età psicologica all’altra comporta una ridefinizione totale delle primitive identificazioni, la messa in discussione della precedente identità. Occorre far fronte alle molte sollecitazioni provenienti dal mondo interno ed esterno, e sapersi separare da immagini di sé ormai osbolete, per adoperarsi alla costruzione del futuro.
ALDO CAROTENUTO