King Crimson, The elements of King Crimson Tour, Auditorium della Conciliazione, Roma – 12 Novembre 2016.
Dopo 13 anni dal tour di supporto all’album The power to believe, i King Crimson ritornano in Italia per una serie di concerti, facendo tappa anche a Roma con due serate all’auditorium della conciliazione, accanto al Vaticano.
Questo luogo, ha probabilmente un significato particolare per Robert Fripp, chitarrista e mastermind di quella che non è altro che la sua creatura, che dal 1969 muore e rinasce di volta in volta sotto nuove sembianze. Infatti l’opera dei King Crimson contiene non poche idiosincrasie nei confronti della Chiesa cattolica, a cominciare dalla controversa origine del nome del gruppo, che sarebbe sinonimo di Beelzebub. In realtà ciò è stato smentito da Fripp, secondo cui in realtà il nome deriva dalla parola B’il Sabab (che significa “colui che ha uno scopo”), mentre Peter Sinfield, il vero ideatore del nome e autore dei testi dei primi quattro album, ha dichiarato che nel nome del gruppo confluiscono simboli, archetipi, colori e diverse figure storiche. Tra queste figure spicca quella di Federico II di Svevia, protettore delle arti ed antagonista del Papato.
Al di la delle disquisizioni sul nome, sono evidenti nei testi e nelle copertine dei Crimson molti riferimenti ad immagini archetipiche e simbologie alchemiche, come ad esempio nell’album “In the wake of poseidon”, nella cui copertina e nell’omonino brano, si fa riferimento ai 12 archetipi della mente umana descritti da Tammo De Jongh.
Non è inoltre un mistero l’interesse per il misticismo e l’esoterismo, sia di Fripp che di Sinflield.
Il batterista Bill Bruford raccontò che quando venne preso nel gruppo, non trovò una lista di pezzi da imparare, bensì una serie di libri tra i cui autori vi erano Gurdjieff, Castaneda e Ouspensky; si rese quindi conto che Fripp aveva un piano che non rivelava apertamente e che in ballo c’era qualcosa di più della sola musica. Fripp peraltro, concluse la fase musicale crimsoniana degli anni settanta, ritirandosi nella comunità fondata da John G. Bennet, discepolo di Gurdjieff, per sottoporsi agli esercizi fisici da lui ideati oltre che agli studi di cosmologia, psicologia e meditazione.
Appare quindi non troppo velata, una critica alle autorità morali, soprattutto religiose, causa di repressione delle forze psichiche che vivono nell’essere umano. Una critica all’ordine precostituito che si può scorgere anche nella forme musicali del rock progressivo, genere di cui i King Crimson sono tra i massimi esponenti che ha rotto gli schemi musicali del passato per lanciarsi nella sperimentazione di nuovi paesaggi sonori.
Questa sperimentazione ha portato Robert Fripp, in quasi mezzo secolo, a fare e disfare di tutto, nei King Crimson così come nelle sue svariate collaborazioni e progetti solisti; sperimentazione che all’età di settant’anni non è evidentemente ancora finita, vista anche la totalmente inedita struttura dell’ultima formazione dei Crimson. Questa ha infatti preso le sembianze, per usare la definizione data dallo stesso Fripp, di una bestia a sette teste formata dai tre batteristi, Pat Mastelotto, Gavin Harrison e Jeremy Stacey, dal bassista Tony Levin, dal cantante-chitarrista Jakko Jakszyk, da Mel Collins al sax e flauto ed ovviamente da Fripp alla chitarra.
I biglietti per le due serate romane del “The elements of King Crimson tour”sono esauriti da mesi.
In attesa dell’inizio del concerto, si ascoltano in sottofondo dei soundscapes di Fripp, mentre vari annunci e cartelli ammoniscono ripetutamente il pubblico che è assolutamente vietato fare foto o registrazioni; cosa ormai molto insolita, oltre che difficile da evitare nell’era degli smartphone.
Terminata l’attesa, i sette elementi dei King Crimson entrano sul palco accolti da una grande e lunga ovazione, a cui Fripp stesso, nell’attesa che termini, risponde con un applauso.
I Crimson in questa versione sembrano una piccola orchestra diretta da Fripp: i tre batteristi formano una prima linea frontale dietro a cui sono schierati i restanti quattro musicisti, con Fripp seduto in posizione laterale, da cui può gettare lo sguardo più sul gruppo che sul pubblico.
La prima parte dello show è caratterizzata soprattutto da brani degli anni settanta, che sono stati esclusi dai loro live per lunghissimo tempo e ripresi solo in quest’ultimo tour: Picture of a city, Cirkus, Red e In the court of the crimson king ci fanno viaggiare indietro nel tempo in uno straordinario periodo di evoluzione musicale, in cui i King Crimson, contrariamente a quanto faceva il resto del mondo musicale, ripudiarono il blues come base per il rock, dando invece spazio al jazz e alla musica classica. La cosa che colpisce è che pezzi di più di quarant’anni fa non suonano affatto sbiaditi, ma appaiono invece di una bellezza monumentale.
La seconda parte della serata concede maggiore spazio a brani del repertorio più recente, come Vroom, Level Five, Indiscipline e Scarcity of miracles, che ci ricordano quanto la produzione musicale del gruppo abbia continuato a progredire nei decenni, spaziando dalle atmosfere “progressive wave” degli anni ottanta fino alle sonorità heavy ed elettroniche del 2000 in un caleidoscopio di stati emozionali che vanno dall’allegro al malinconico, dal rasserenante all’inquietante. Chiude il concerto la struggente Starless che porta la band ad abbandonare il palco accompagnata da una nuova grande ovazione.
Ovviamente il gruppo non potrebbe andare via senza suonare il brano più celebre della loro storia: 21st century schizoid man, che eseguono per il bis concludendo trionfalmente la serata. Proprio quest’ultimo pezzo, oltre ad essere il brano più celebre, è probabilmente anche quello che rappresenta meglio l’opera crimsoniana, che ha trattato mirabilmente il tema dell’angoscia schizoparanoide dell’uomo moderno, che lo porta a fuggire da una società alienante per rifugiarsi nel mondo psichico interiore, un mondo popolato da immagini archetipiche e personaggi mitologici.
Come in ogni creazione artistica, anche nel lavoro fatto dai King Crimson non si può non vedere in essa un riflesso della psiche del suo creatore Robert Fripp, personaggio schivo che rifugge le ombre dei riflettori che illuminano piuttosto il resto del gruppo da lui guidato; talmente insofferente ai flash delle macchinette fotografiche da arrivare in passato ad abbandonare il palco per questo motivo. Interessanti sono le dichiarazioni rilasciate in una vecchia intervista fatta in occasione della produzione dell’album di conversazioni con Walli Elmark intitolato The cosmic children of love, la cui funzione era, per Fripp, quella di rivolgersi a dei bambini particolari per dire loro:
“tu non sei pazzo, non sei un fenomeno da circo solo perché non riesci a relazionarti con quello che c’è intorno a te.”
Si ravvisa quindi in Fripp la figura dell’artista geniale ritirato in se stesso, che attinge creativamente dalla sua solitudine e rifugge un mondo che non è in grado di capirlo.
Carl Gustav Jung (1969) descrisse il tipo intuitivo introverso come un individuo con scarsa capacità o volontà di esternazione, a causa di un’attività psichica rivolta prevalentemente verso l’interno, che provoca un atteggiamento di ritrosia e assenza di partecipazione che ingenera a sua volta incomprensione nelle persone che lo circondano. Se si tratta di un artista, la sua arte può annunciare cose straordinarie, che non sono di questo mondo, belle e insieme grottesche, sublimi e nello stesso tempo bizzarre. Il pensiero introverso tende a coartare o ignorare i fatti, per sviluppare la propria idea fantastica che non potrà che derivare da immagini arcaiche dal carattere mitologico.
James Hillman (1997) parla di solitudine archetipica, che non dipende dall’essere letteralmente soli, in quanto si può provare solitudine anche in mezzo agli amici o ad una folla osannante. Questi sentimenti, essendo archetipici, non sono però da considerare il frutto di una colpa o di uno stato morboso, ma inevitabili per l’anima che si sente esule dalla sua reale dimensione.
Nel pensiero di Aldo Carotenuto (1991) è centrale il ruolo della creatività nel processo di individuazione, che richiede la grande difficoltà dello scontro con il potere anonimo del collettivo, che si impone con una serie di norme e divieti che sollevano l’individuo dal conflitto tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Le leggi costituiscono dunque l’alibi che ci tiene distanti dall’interiorità e dalla responsabilità individuale; se però il sentire personale si scontra con il collettivo è necessario avere il coraggio di seguire la propria strada, abbandonare il conformismo e aprirsi alla creatività.
Donald Winnicott (1970) sostiene invece che tutti noi abbiamo un nucleo intimo non disponibile alla comunicazione e che bisogna rispettare il bisogno di isolamento del paziente schizoide, in quanto preserva un’importante autenticità che è assolutamente sacra per il Sé in evoluzione. Il ritiro schizoide è quindi un modo di preservare il vero Sé da relazioni artificiali che portano ad un falso Sé. Questa condizione psichica è raffigurata magistralmente dall’uomo schizoide della copertina di In the court of the crimson king, il cui urlo si è fatto sentire ancora molto forte in questo concerto.
Alberto Perillo, Dottore in psicologia, collabora con il CSPL
Bibliografia
Carotenuto Aldo (1991), Trattato di psicologia della personalità e delle differenze individuali, Raffaello Cortina.
Hillman James (1997), Il codice dell’anima, Adelphi.
Jung Carl Gustav (1969), Tipi psicologici, Bollati Boringhieri.
Winnicott Donald (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore.