Lento, ispirato, evocativo. La parola d’ordine è essenzialità.
Ogni gesto, ogni immagine che scorre dinanzi ai nostri occhi scardina dentro di noi emozioni sepolte: vita e morte, speranza e carità. Gianfranco Rosi ha colto nel segno con il suo film Fuocoammare. Poche parole, volti e gesti densi di significati; il film, meritatissimo vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, risulta estremamente eloquente in ogni sua sfumatura, in ogni dettaglio, colore o suono, e la dice tutta sul tema della emigrazione, sulla sofferenza, sull’abbandono e sulla solidarietà: i sopravvissuti avvolti nelle loro coperte luccicanti sembrano divinità guerriere emerse da chissà quale abisso in tutto il loro coraggio e nel loro dolore composto.
Un faro illumina il mare di Lampedusa alla ricerca di corpi vivi o morti e il suono delle motovedette si sovrappone a quello dell’ultrasuono che esplora la vita, germogliata nel ventre di una sopravvissuta. Il mare azzurro contemplato dal bambino Samuele e dagli isolani è lo stesso mare nero assetato di corpi, trafitto da un faro di speranza tra il dolce rumore delle onde, gemiti e singhiozzi. Poetico e pragmatico allo stesso tempo, un film da vedere.