Saper vivere

Gerd. B. Achenbach, Saper vivere, 2001.

Nel 2006 esce per i tipi di Apogeo la traduzione italiana del terzo lavoro letterario di Gerd B. Achenbach (prima edizione tedesca del 2001): “Saper vivere”.

Nel titolo, che ricorda in parte il significato della parola Lebenskonnerschaft (capacità di saper vivere) coniata dall’autore e designata quale titolo originale del libro, c’è tutto il progetto dell’opera, che consiste in una riflessione su cosa sia la saggezza (concetto centrale e chiave di lettura del testo) con cui la capacità di saper vivere è identificata.

Secondo Achenbach il termine saggezza risulta infatti datato, non dice più nulla all’uomo moderno (l’Ultimo Uomo, come lo chiama amaramente l’autore rifacendosi al celebre, omonimo passo di Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”), poiché questi non conosce più i significati dei Valori, delle Virtù, e degli stessi Vizi, accontentandosi di vivere nella mediocrità, al di sotto delle proprie possibilità, piccolo e inerte.

La famosa citazione kantiana (dalla Conclusione della Critica della Ragion Pratica) che identifica come guide ideali dell’uomo “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”, è per Achenbach espressione della potenziale grandezza umana, così lontana dalla consapevolezza dell’uomo moderno, ma , comunque, ancora possibile da risvegliare.

Il primo passo verso il risveglio consiste nel coniare un nuovo termine che vada a sostituire saggezza, ormai improponibile, perché troppo elevato, distante, per l’uomo dell’ epoca attuale: l’autore, tornando all’origine della parola phronesis (abilità, capacità, che rimanda ad esemplarità, eccellenza, perfezione), opta per capacità di saper vivere, quale nuova espressione capace di indicare il concetto di saggezza per chiunque decida di cercarla, stanco di dormire della mediocrità del nostro tempo.

La capacità di saper vivere, puntualizza Achenbach mutuando Goethe, è la capacità di fare la cosa giusta in ogni situazione (il vecchio, caro, discernimento dei cristiani), e può essere appresa, non come un sapere intellettuale, ma facendone esperienza, allenandola, temprandola.

Palestra deputata per questo speciale allenamento sono i Grandi dell’arte, della letteratura, della musica e del pensiero, la cui frequentazione può rieducare l’uomo moderno e risvegliarne la grandezza.

La frase più emblematica del libro è infatti: “la capacità di saper vivere va a scuola dalla saggezza e quello che qui ascolta sono i racconti” .

Achenbach consiglia, quindi, al lettore interessato (secondo i suoi personalissimi gusti, molto tedeschi…), letture e riferimenti culturali ritenuti appropriati per cominciare ad esperire la conoscenza della saggezza.

Il libro non risulta di facile lettura a causa della struttura del testo: si tratta, infatti di un carteggio filosofico, una lettera indirizzata al lettore, scritta in più riprese, che si dipana tra pause, accelerazioni, digressioni, salti, cambi di registro, per tutta la durata del libro.

La scelta dell’autore di non esporre la materia in un tradizionale trattato o saggio è motivata all’inizio dalla dichiarata impossibilità di scrivere un libro su una capacità che egli stesso non padroneggia ancora appieno: “ Cari amici, vi ho confessato che non potevo scrivere questo libro, perlomeno non ancora. Sono io, forse, uno che è capace di saper vivere? Posso dire di sforzarmi nel padroneggiare la mia vita e di condurla meglio che posso. Qui sto facendo esattamente la stessa cosa: quello che posso e, quindi, invece di scrivere un libro, vi scrivo una lettera.”

La preferenza accordata al genere epistolare appare certamente in linea con l’approccio democratico, amichevole, tipico della consulenza filosofica, dove consultante e consulente sono sullo stesso piano, esattamente come Achenbach–autore e l’amico-lettore, destinatario della lettera-libro.

La forma letteraria scelta, inoltre, sottolinea il distacco dalla filosofia teorica tradizionale, che si esprime con saggi e trattati, per un ritorno alle origini della filosofia in cui il carteggio (indirizzato ad amici veri o fittizi) era il mezzo di espressioni dei grandi pensatori antichi che, in quel modo, commenta Achenbach, riuscivano a “toccare i cuori più che le menti delle persone”.

L’autore precisa ancora che la lettera rispetto al libro ha il vantaggio di poter diventare un contenitore di racconti: è possibile, durante la stesura, fare delle pause nell’esposizione dell’argomento principale per raccontare storie di amici (Christian e Nana), storie letterarie (il commento alla lirica “Il diario” di Goethe, il racconto “Lo schiaffo” , la parafrasi di Ulisse e Nausica dall’”Odissea”,…), storie personali (gli incontri dell’autore con il suo editore…).

L’ascolto e l’arte di narrare sono i due presupposti fondamentali l’uno per apprendere, l’altro per insegnare la saggezza, che cresce con la pratica, che va esercitata giorno dopo giorno:”saggio è chi si sforza di esserlo”.

Compare più volte, inoltre, nel libro un parallelo tra due modalità di approccio all’esistenza, quella dell’artista della vita, e quella di colui che è capace di saper vivere, ma la comparazione, sebbene interessante ed espressa con trasporto dall’autore, si perde nel mare di citazioni, riferimenti, aneddoti, riflessioni, richiami, deviazioni.

Il lettore, che pure è chiamato amico, viene trascinato avanti e indietro per le pagine del libro e costretto ad uno sforzo non indifferente per mantenere l’orientamento del pensiero e riallacciare il senso del discorso primario, disperso tra le chiacchiere epistolari di Achenbach.

Alla fine si ha l’impressione che l’espediente letterario dell’epistola filosofica su cui è stato costruito il libro non sia riuscito, che l’intento colloquiale sia stato disatteso, che, quasi, sia stata perpetrata una vera prepotenza ai danni del povero amico-lettore tiranneggiato e sballottato su e giù con pause e rimandi, e che, in definitiva, il messaggio relativo al saper vivere si smarrisca, soffocato dai capricci narrativi.

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Marina Malizia