Tratto da G. Antonelli, Schizzi genealogici psicofilosofici, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, aprile 2008
Paul Ricoeur e la psicoanalisi. Testi scelti
a cura di D. Jervolino e G. Martini, 2007
“Penso sempre più” dice Ricoeur nel corso di un’intervista sulla psicoanalisi “che nella pratica analitica vis à vis della cura vi sia molto di più che nella teoria psicoanalitica. La pratica eccede la teoria”. Si tratta qui di un discorso che, in ambito psicoanalitico era già stato annunciato da Rank e ribadito, in psicoterapia esistenziale, da Boss. “Sono ben consapevole” riconosce di seguito Ricoeur “di essere escluso in forma per così dire radicale dallo spazio analitico, dato che non sono passato per questa esperienza del transfert e del controtransfert. Questo è il motivo per cui non ho più scritto sulla psicoanalisi, pensando che bisognasse avere un’esperienza dall’interno della pratica psicoanalitica”. Quale filosofo l’ha avuta? E quale filosofo, per non averla avuta, ha declinato di ripensare la psicoanalisi?
Ricoeur non ha declinato di ripensarla, anche se il ripensamento non ha mantenuto le proporzioni del suo saggio su Freud. Ripensamento necessario, dal mio punto di vista, a dispetto della mancata frequentazione del setting. Al filosofo appartiene il numero uno, allo psicologo il due. L’uno, diciamo così, occupa terra o cielo. Che abbracci terra o cielo quell’uno filosofico, il due della psicologia si colloca a mezz’aria. L’invenzione dell’anima è per lo più socratica, dunque filosofica come quella della psicologia e, però, cosa hanno fatto i filosofi dell’anima? Avrebbe mai potuto Hegel, ad esempio scrivere una Fenomenologia dell’anima? Se l’uno e il due si incontrano, partoriscono quel tre che consente, via funzione trascendente, l’accesso al quarto, alla morte for the moment, al trascendimento egoico, al trascendimento dei confini, all’inabitazione del terzo stato. Terzo stato cui innazitutto e per lo più vengono meno i filosofi, non perché non lo pratichino (per fare cielo, i filosofi devono praticare il terzo stato), ma perché non lo pensano (essendone pensati). Cosa ne è della trance, dell’ipnosi nel pensare dei filosofi? Cosa ne è, in filosofia, degli stati non ordinari di coscienza? Non che questi siano ben pensati dagli psicologi, i quali possono anche rifuggirne e per lo più, molto afenomenologicamente, ne rifuggono. Fare anima ha però a che vedere con l’aria degli stati non ordinari di coscienza.
Ferenczi aveva capito che l’analisi fluisce in regime di terzo stato, di Versenkung, di Traumversenkung, d’immersione nel sogno. Ecco la pratica che manca a Ricoeur, il quale pensa però quel mancare in termini di transfert e controtransfert. Transfert e controtransfert stanno là a dire, semplicemente, che qualcosa attraversa l’aria del setting, qualcosa fert trans. A dispetto di questo misconoscere i movimenti sottili dell’aria, i filosofi molto possono trans ferre agli psicoterapeuti. È stato detto che Ricoeur non nutriva l’intenzione di trasformarsi in un didatta per psicoterapeuti. Osservazione tanto ovvia quanto fuorviante. Da un’intenzione che non c’è non necessariamente non emanano effetti felici e, in questo caso, didattici. Effetti che hanno a che vedere con un lasciar fluire. Perché si producano questi effetti, gli psicoterapeuti possono inventare, ritrovare, il filosofo didatta, anche se questi non vuole saperne o non lo sa. Si tratta qui di analisi reciproca, come voleva Ferenczi, nell’unico esperimento condotto a suo tempo all’ombra del pervasivo ostracismo dell’intellighenzia psicoanalitica.
La psicoanalisi non è un’origine. Lo psicoanalista non detiene il sapere assoluto, né lo desidera. Conosce un assoluto, certo, anzi una differenza assoluta: la psiche. Qualcosa precede, psicoanalista e paziente, filosofo didatta e psicoanalista, il setting, l’aria che attraversa il setting. Nel setting regna l’origineadesso dell’aria e, dunque, psicoanalista e paziente, Ferenczi e paziente, diventano origine. Risiede qui, elementarmente, il senso dell’analisi reciproca. Nessuno può pretendere per sé un’origine. Perché non ripensare, allora, a Derrida come al didatta di Lacan? Lacan, poi, non ha forse parlato di Kojève in termini didattici? Perché non pensare all’analisi mancata di Sartre come a un’analisi ancora, adesso, da inaugurare? Jaspers non ha forse pensato ai filosofi come ai didatti dei primi psicoanalisti? E cos’altro fa, encore, Platone? E cos’altro ha fatto, a Zollikon, Heidegger? Nelle intenzioni di Heidegger c’è il voler liberare i giovani medici dalla Praxis. Pensa, Heidegger, alla creazione di cellule di resistenza contro l’inarrestabile potenza della tecnica, cellule che tengano desta la meditazione e preparino l’inversione, allorché sarà divenuta insostenibile la desolazione universale. Se filosofia e psicoterapia compongono il discorso del servo, a Ricoeur, che denunciava il proprio non essere entrato nel setting, si può ribattere che quel tempo non è andato via, quel tempo c’è ancora, quel tempo c’è ora.