in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, n. 17 “Abbandoni”, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto
Essere abbandonati da Dio, abbandonare le difese, abbandonarsi al flusso di idee ed emozioni: gli imperativi categorici del nostro tempo suonano come altrettante declinazioni dell’abbandono, inviti a mollare gli ormeggi nel porto rassicurante della ratio e della fede per navigare nel mare aperto della vita1 . Ed eccoci dunque spaesati, tentati e spaventati al tempo stesso dalla sconfinata vastità dell’orizzonte che ci attende a largo, vastità alla quale possiamo abbandonarci solo a patto di abbandonare ogni ancoraggio.
L’abbandono si paga sempre al prezzo di altri abban- doni. Impariamo ad abbandonarci soltanto dopo aver attraversato l’esperienza dell’abbandono e della dereli- zione: quando, dopo il distacco, la perdita, la desolazio- ne, arriviamo ad accettare la crudeltà dell’abbandonare e dell’essere abbandonati, e nell’accettazione riusciamo finalmente a cogliere l’intangibile forza del dono che l’ab- bandono conserva in sé. Dovunque ci sia un abbandono, infatti, deve prima esserci stato un dono che proprio nel suo esser tolto assume una forma definita e lascia traccia permanente di sé.
Ogni abbandonare presuppone un donare che l’abbandono non cancella ma che iscrive in sé e trasforma, contenendolo ed imprimendogli un sigillo definitivo. Lo testimoniano le parole: il termine abbandono comprende in sé il dono come sua parte e unicamente come sua parte, sul ricalco dell’etimo franco-germanico abandon, che racchiude e confina il dono (don) combinandolo con la locuzione à ban, “in potere di”. Più esplicitamente denotativo è il tedesco Aufgeben, in cui l’atto del dare (geben), viene indicato, superato e ricompreso a un livello più elevato mediante l’associazione con la proposizione auf, “sopra”: l’abbandonare si configura letteralmente come un “sovra-donare”, un agire donativo che ha trasceso se stesso in un ordine superiore ed è così divenuto, sia pur conservandosi, altro da sé.
L’inerenza del dono all’abbandono e la persistenza del primo nel secondo di cui sono testimoni le parole stanno lì a suggerirci che per quanto io possa abbandonare ed essere abbandonato mai potrò revocare o vedermi sottratto il dono della relazione, dell’amore scambiato, del tempo vissuto e condiviso, delle scoperte e delle trasformazioni che mi ha portato. Occorre poi osservare che non soltanto l’abbandono non rimuove il dono, ma talvolta arriva perfino a rafforzarlo rendendolo evidente. Ci accade così che riusciamo a percepire l’importanza e la bellezza di ciò che abbiamo ricevuto soltanto dopo averlo perso: per capire fino in fondo quanto sia preziosa la salute o una persona cara dobbiamo spesso aspettare che ci abbandoni.