Thomas H. Ogden, artista della psicoanalisi

Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura, 11, 2010

I disturbi psicopatologici emergono, cambiano e spariscono secondo i mutamenti culturali e sociali: dal punto di vista epidemiologico, se fino a 30 anni fa le persone manifestavano per lo più sintomi di nevrosi, il cui meccanismo di difesa principale è la rimozione, oggi sono sempre più frequenti i disturbi di personalità con organizzazione borderline che utilizzano come difese soprattutto la scissione e l’identificazione proiettiva.

Thomas Ogden nelle sue pubblicazioni ha fornito una descrizione puntuale di quest’ultimo meccanismo difensivo, utilizzandolo quale strumento concreto per comprendere il mondo interno del paziente.

Lo studioso descrive l’identificazione proiettiva come il modo in cui una persona fa uso di un’altra per sperimentare e contenere un aspetto di sé stessa: colui che proietta ha la fantasia inconscia di liberarsi di una parte di sé non desiderata e di collocarla in un’altra persona, al fine di poterla controllare in maniera molto forte; a sua volta la parte proiettata viene poi percepita come appartenente all’altro individuo.

Chi riceve la proiezione è indotto a identificarsi, quindi a pensare, sentire e agire in maniera conforme con il particolare aspetto che il primo soggetto ha rifiutato.

Quando questo meccanismo di difesa viene messo in atto all’interno del setting, il paziente non si limita a vedere il terapeuta in base alle proprie relazioni oggettuali passate, ma esercita delle “pressioni” emotive per fargli sperimentare sé stesso in base alla fantasia inconscia dominante.

In sintesi l’identificazione proiettiva descrive: un’interazione interpersonale (la pressione di un soggetto su un altro per soddisfare la fantasia proiettiva); l’attività fantasmatica dell’individuo che agisce la difesa; l’interazione tra la dimensione intrapsichica e interpersonale.

Esempio clinico: “A. diceva frequentemente di voler mettere il suo cervello malato nel terapeuta, che avrebbe quindi dovuto ossessivamente addizionare i numeri di ogni targa automobilistica che vedeva e sarebbe stato tormentato ogni volta che toccava un oggetto non suo, dal timore che la gente lo accusasse di cercare di rubarlo. Il paziente rese evidente che la sua fantasia non era semplicemente quella di liberarsi di qualcosa: era quella di vivere in un’altra persona e di controllarla dall’interno. Il suo cervello malato avrebbe tormentato, nella fantasia il terapeuta dall’interno, proprio come normalmente tormentava il paziente”.

Ogden offre un esempio molto chiaro per comprendere l’esperienza condivisa tra analista e paziente: il soggetto è il regista e, allo stesso tempo, uno degli attori principali della rappresentazione interpersonale, basata su una relazione oggettuale interiorizzata; il terapeuta è un attore inconsapevole della parte che gli è stata attribuita.

L’identificazione proiettiva si rivela essere, allora, il processo con cui al terapeuta vengono date indicazioni di regia per recitare un dato ruolo.

Esempio clinico: “Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all’analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall’analisi “ci guadagnava qualcosa”, diceva “forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile”, e così via.

Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle sempre più in ritardo, fino al punto che l’analista incominciò a chiedersi se il paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l’analista pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell’inizio di una seduta, l’analista pensò di accorciare l’ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l’analista. Gradualmente, l’analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente “il valore di quello che lui pagava”.

Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l’analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo “inutile” lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l’analista fu capace di guardare ora in modo nuovo al materiale clinico.

Il padre del Sig. K. aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente.

Il sentimento implicitamente trasmesso era che l’’avidità del paziente per il tempo, l’energia e l’affetto della madre aveva provocato l’abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all’analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l’abbandono da parte del padre (transferale) e l’attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell’analista.

Invece, il paziente insisteva nel considerare l’analista e l’analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L’interazione aveva sottilmente generato nell’analista un intenso sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all’inizio anch’egli cercò di negarlo e sconfessarlo.

Per l’analista, il primo passo nell’integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell’aspetto di se stesso che era interessato alla comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli.

Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell’analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell’analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l’analista diventava consapevole di questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro.

Dopo un po’ di tempo il paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l’analista sembrava felice di ricevere “quel bel grasso assegno”, e che ciò “non si addiceva molto ad uno psichiatra”. L’analista sorrise un po’, e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione, l’accettazione da parte dell’analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l’internalizzazione da parte del paziente.

L’analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la reinternalizzazione attraverso l’interazione terapeutica”.

Vediamo in sintesi cosa emerge da questa interazione: a causa della scarsa puntualità nei pagamenti del Sig. K. l’analista inizia a sentirsi inutile e avido di denaro (“si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo inutile lavoro”), ovvero comincia a interpretare un ruolo all’interno dell’identificazione proiettiva del paziente; sentendosi in colpa per i suoi sentimenti di avidità, l’analista cerca di correggerli regalando qualche minuto in più alla fine della seduta (… “l’avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo”).

Il paziente, percependo l’anomalo comportamento del terapeuta, vede riconfermata la sua patologia, cioè la paura e la vergogna ad ammettere di essere una persona colpevole di essere avida di affetto.

Il terapeuta però dopo qualche tempo comincia a pensare che quello che lui sente dentro potrebbe anche essere una proiezione del paziente.

Osservandosi internamente sente di poter accettare questi sentimenti integrandoli con altri aspetti della sua personalità (“egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato”) così arriva a mostrare al paziente che si può anche provare avidità, e parlarne, e non per questo esserne sopraffatti con il conseguente abbandono da parte di figure importanti.

L’analista, alla fine dell’interazione, non usa una classica interpretazione per chiarire ciò che è successo, ma semplicemente interagisce col paziente manifestando di accettare i sentimenti proiettati (“L’analista sorrise un po’ e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro”).

A cosa serve l’identificazione proiettiva e come può essere utilizzata? Il paziente utilizza tale modalità difensiva per liberarsi di una parte di sé che rifiuta e per restare legato al precario equilibrio interiore; d’altra parte può utilizzarla per fare in modo che l’aspetto inserito nell’altro venga salvato e protetto.

Dal canto suo l’analista, grazie all’interazione difensiva, ha accesso ad una ricchissima fonte di dati – pensieri e sentimenti – sul mondo interiore del soggetto ed ha la possibilità di integrare la comprensione della propria esperienza interiore con quella trasmessa e vissuta dall’altro.

Lo strumento terapeutico diviene la capacità dell’analista di ricevere le proiezioni del paziente, utilizzando aspetti della propria organizzazione psichica per trasformare i frammenti emotivi ricevuti, rendendoli digeribili e pronti per essere reincorporati, come materiale adatto per la crescita esperenziale dal paziente stesso.

È un lavoro molto difficile quello di funzionare da “contenitore” delle pressioni emotive del paziente che spesso sono di natura aggressiva e svalutante e inducono il terapeuta ad intervenire o a fuggire da esse; l’Autore suggerisce di non agire direttamente sui sentimenti che si sono manifestati, infatti è alto il rischio che il contenimento fallisca e il terapeuta introduca nuovamente nel paziente gli aspetti del sé che questi stava cercando disperatamente di allontanare

I vissuti scaricati dal soggetto sono comunicazioni da comprendere e accettare attraverso una particolare condizione emotiva del terapeuta che Ogden chiama rêverie analitica: essa consiste in uno stato onirico ad occhi aperti che può prendere qualsiasi forma – frammenti di film, musiche, ricordi personali, sensazioni corporee etc. – e implica un allontanamento dalla logica del reale, per sentire più distintamene cosa si muove nell’inconscio.

I frammenti e le immagini scaturite durante la rêverie apparentemente sembrano scollegate da ciò che il paziente dice o fa; al contrario sono in profonda connessione con ciò che in quel momento sta succedendo nel setting, infatti lo studioso sostiene che i sogni e le rêverie prodotti dalla coppia analitica derivano, non solo dalle esperienze interiori individuali, ma da una costruzione intersoggettiva inconscia, il cosiddetto “terzo analitico”, un terzo soggetto con vita propria generato dalla fusione emotiva dei due protagonisti.

Quindi il sogno e la rêverie appartengono all’attività del terzo analitico, secondo una costruzione progressiva sinergica ancorché asimmetrica.

In questo luogo altro si esprimono tutta una serie di sentimenti legati all’angoscia dominante attualizzata nel transfert e nel controtransfert e la rêverie è lo strumento per riuscire ad entrare in contatto con il prodotto del terzo analitico intersoggettivo.

Solitamente l’analista vive la sua rêverie come un’intrusione disturbante, una manifestazione di stanchezza, di problemi personali o ritiro narcisistico: al contrario Ogden sostiene di affidarsi a questo tipo di silenziosa esperienza come ad una bussola emotiva, per cogliere le giuste indicazioni su quello che sta accadendo nella relazione.

Esempio clinico: “In una recente seduta il Sig. W. mi ha detto, con un tono di intenso coinvolgimento, di essere molto spaventato quando si sente mentalmente fuori controllo.

Il Sig. W. ha alle spalle 2 matrimoni, entrambi terminati con il suo abbandono di moglie e figli, sentiti ormai estranei.

Ha aggiunto che io sono l’unica persona alla quale abbia pienamente rivelato tutta la sua ‘follia’.

Mentre il Sig. W. parlava, la mia mente vagava intorno a pensieri sull’imminenza del mio cinquantesimo compleanno. Ho ricordato una conversazione con un mio amico, al quale avevo raccontato, tra il serio e il faceto, che mi apprestavo a gestire il passaggio dei cinquanta rifiutandomi di crederci.

A posteriori ho sentito questa spiritosaggine come un tentativo troppo consapevole di dimostrarmi arguto. Mi sembrava di aver insistito troppo nello scherzo e, con il procedere della conversazione nella mia mente, mi sentivo sempre più imbarazzato.

Riportando l’attenzione su ciò che diceva il Sig. W. ho cercato di inserire la mia rêverie nel contesto della relazione analitica presente.

Dopo un po’ ho detto al Sig. W. che, pur credendo che fosse sinceramente spaventato dal livello cui gli sembrava fossero giunte la sua follia e mancanza di controllo, avevo comunque la sensazione che altre volte riuscisse a rendere quel senso di sé così irreale da non credere che facesse parte di ciò che egli era.

Il Sig. W. rimase in silenzio per qualche istante, poi ha detto (con un tono che sembrava molto più sollevato dalla precedente pressione) che quando parla dell’analisi come di qualcosa di “elettivo”, la sua follia gli sembra come appartenere a un lontano passato o perfino ad un’altra persona, qualcuno che conosce bene, ma che non è completamente lui. “Non è che penso che si veramente un’altra persona, ma neanche mi sembra di essere io”.

Ogden ha usato terapeuticamente una serie di sentimenti e pensieri emersi spontaneamente dentro di lui, durante la seduta.

Apparentemente questo materiale sembrava sconnesso rispetto al racconto del paziente tuttavia, nel corso del tempo, si è fatta più chiara la forte connessione tra il rifiuto dell’analista di credere che stava per compiere 50 anni e il rifiuto del Sig. W. di essere consapevole del suo lato fuori controllo (“… mi apprestavo a gestire il passaggio dei cinquanta rifiutandomi di crederci”… “Non è che penso che si veramente un’altra persona, ma neanche mi sembra di essere io”).

La rêverie, i sogni e i sintomi sono considerati dall’autore come metafore dell’esperienza inconscia con le quali bisogna giocare creativamente per capire appieno il loro potere trasformativo: come un artista egli riesce ad utilizzare tutto ciò che proviene dalla conversazione col suo paziente, dando vita a esperienze originali e nutrienti per entrambi. Vediamo in concreto come egli utilizza la rêverie nel contesto terapeutico: innanzitutto dall’inizio alla fine della seduta cerca la connessione tra la coppia analitica e due aree sovrapposte dell’esperienza, ovvero 1) come sia la sua sensazione di essere con il paziente in quel dato momento e 2) quale sia la sua percezione dell’angoscia transferale/controtransferale dominante nello stesso momento.

All’inizio questi due aspetti dell’esperienza sono entrambi inconsci e attraverso gli elementi che emergono durante la rêverie lentamente è possibile cogliere significati condivisibili.

Ogden descrive al paziente ciò che sta accadendo tra di loro (“Dopo un po’ ho detto al Sig. W. che, pur credendo che fosse sinceramente spaventato … avevo comunque la sensazione che altre volte riuscisse a rendere quel senso di sé così irreale da non credere che facesse parte di ciò che egli era”), cercando di parlare in base all’esperienza che vive nella sua rêverie: il risultato è che l’intervento del terapeuta esprime come il paziente stia sentendo la relazione analitica e la relativa angoscia e come quella determinata esperienza sia collegata con altre situazioni vissute sempre nel setting o con persone fondamentali della sua vita.

Egli si cala all’interno della relazione cercando costantemente di trasformare l’esperienza di essere ‘io’ come soggetto inconsapevole, nell’esperienza di essere ‘me’, come oggetto di indagine analitica all’interno di quel luogo condiviso che egli chiama ‘terzo analitico intersoggettivo’.

Ogden nei suoi lavori cerca continuamente di chiarire il modo in cui lavora come psicoanalista e il modo in cui concepisce ciò che accade nella stanza d’analisi: la sua posizione, racconta, è il tentativo di cogliere il più possibile i momenti “vivi” di una seduta attraverso la capacità dell’analista di “sognare l’analisi”, ovvero sentire interiormente cosa prova con quel determinato paziente, condividendo con lui lo stato di rêverie in un luogo al confine del sogno.

BIBLIOGRAFIA

Ogden, T., La identificazione proiettiva e la tecnica terapeutica, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1994.
Ogden, T., Rêverie e interpretazione, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1999.
Ogden, T. , Conversazioni al confine del sogno, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2003.
Ogden, T., L’arte della psicoanalisi, Cortina Editore, Milano, 2008.

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L'autore
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Benedetta Rinaldi
Psicologa e psicoterapeuta, è esperta in ipnosi clinica. Professore a contratto presso l’Università degli studi Guglielmo Marconi di Roma.