Io-Tu: la relazione terapeutica dal punto di vista cognitivo-comportamentale

Daniele Fedeli, Io-Tu: la relazione terapeutica dal punto di vista cognitivo-comportamentale, Editrice TecnoScuola, Gorizia, 2000

Io-Tu: la relazione terapeutica dal punto di vista cognitivo-comportamentale di Daniele Fedeli è l’ideale continuazione del testo di Meazzini La terapia del comportamento: una storia. L’uno recupera e approfondisce gli aspetti che l’altro relega in appendice. Con un (quasi) uguale pregio: la sintesi, la chiarezza, l’onestà, direi la moralità, nella stile di esposizione. Che rappresenta forse il maggior merito di un testo didattico.

Secondo l’autore la grande innovazione all’interno della Behavior therapy si è verificata a partire degli anni ’70 con la scoperta dei fattori terapeutici aspecifici derivanti dagli aspetti relazionali del setting. In particolare si è constatata la presenza di fattori come l’effetto placebo, il ruolo delle aspettative del cliente nei confronti del terapeuta-persuasore, l’utilità di un ‘terapeuta caldo’, condizione forse non sufficiente ma sicuramente necessaria per ottenere i cambiamenti desiderati, e infine l’influenza del condizionamento verbale, anche attraverso l’elegante esperimento di Greenspoon. Il quale pone a confronto i dati ottenuti dalle risposte dei pazienti in condizioni sperimentali non condizionate ed altre di pazienti che ottenevano un rinforzo dal terapeuta -manifestato attraverso l’assenso con il capo o l’emissione di suoni gutturali (mmm, uh-uh)- ogni volta che si verificavano risposte con nomi plurali. La conseguenza era che la frequenza dei nomi plurali aumentava vertiginosamente. Krasner arriva anche ad ipotizzare che tutto il setting altro non è che una struttura programmata per erogare rinforzi sociali al fine di rendere più adattativo e meno patogeno il comportamento del cliente. Indicando con la sua tesi il limite riduzionistico di un comportamentismo puro che non sappia prendere coscienza della relatività dei suoi believe deterministici. Il comportamentismo, insomma, appare utile nella stretta misura in cui rimane un mezzo di cambiamento, non il fine stesso della terapia. Nel quale caso diventa manipolazione.

La rivoluzione epistemologica delle terapia cognitive comincia, secondo Danieli, con la psicologia dei costrutti personali di Kelly. Il cui postulato principale è dato dalla credenza che i processi operativi di una persona sono influenzati dal modo in cui essa anticipa gli eventi. La metafora dominante è quella dell’uomo scienziato che elabora il proprio sistema di costrutti, cercando i dati empirici per validarlo. La patologia insorgerebbe quando il sistema dei costrutti personali si irrigidisce, perdendo la propria capacità predittiva degli eventi ed anzi sviando l’individuo da una efficace percezione della realtà. Ed ecco allora che la terapia cognitivo-comportamentale si caratterizza allo stesso modo di una relazione fra il supervisore di una ricerca scientifica -il terapeuta- e lo studente ricercatore -il paziente-. Il terapeuta cioè deve essere in grado di cogliere i processi attraverso cui il paziente costruisce la propria personale conoscenza della realtà, facendo sviluppare al paziente una maggiore quota di consapevolezza relativamente al proprio sistema di costrutti.

Il processo però deve essere lento e prudente, poiché se il terapeuta attaccasse in maniera troppo precoce e diretta gli schemi costruttivi del paziente, prima che il paziente possa gradualmente trovarne di alternativi, si potrebbe scatenare in lui uno scompenso psicotico.

La vera nascita delle psicoterapie cognitive, secondo l’autore, comincia in seguito con la comparsa delle terapie razionalistiche di Beck e di Ellis. Il loro punto di partenza comune è il presupposto di una realtà ‘data’, indipendente da ogni osservatore e l’isomorfismo fra le strutture conoscitive dell’individuo e quelle della realtà esterna. La psicoterapia diventa allora, come per Kelly, un aiuto fornito al paziente per individuare le proprie conoscenze inappropriate e le proprie idee irrazionali, al fine di sostituirle con altre più adeguate. La differenza fra i due fautori delle terapie razionalistiche è che mentre in Ellis prevale un atteggiamento didattico, nell’approccio teorico-clinico in Beck è dato maggior risalto al ruolo della collaborazione terapeutica. Cioè il terapeuta di Ellis comanda, quello di Beck coopera.

La critica di Elllis a Rogers, il padre per antonomasia dei ‘cooperatori’, è che l’uso indiscriminato dell’empatia da parte del terapeuta comporta due rischi per il paziente. Il primo è la conferma dell’esigenze di piacere. Il terapeuta esprimendo empatia affettiva ed approvazione al paziente ne rafforza uno dei fondamentali pensieri di disfunzione: ‘devo essere approvato e amato da tutti’. Il secondo rischio, collegato al precedente, deriva dal rafforzamento nel paziente di una bassa tolleranza alla frustrazione. Il paziente si convince ancora di più che deve essere aiutato dagli altri. Immediatamente.

Di contro all’uso indiscriminato e onnipervasivo dell’empatia rogersiana, Ellis propone un atteggiamento educativo-pedagogico del terapeuta, che coinvolga una maturazione degli aspetti cognitivi e di conseguenza anche di quelli emotivi, relazionali e comportamentali. Per questo la sua terapia è stata indicata con gli acronimi RET (Terapia Razionale-Emotiva) e in seguito REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale). In pratica di fronte alla naturali resistenze del paziente il terapeuta assume l’atteggiamento vigoroso dell’insegnante, uno stile para-autoritario che anche gli stregoni primitivi, gli psichiatri prefreudiani e i preti preconciliari avevano individuato come il più idoneo allo scardinamento delle resistenze.

Per Beck non è questa la strada giusta. Rogers aveva ragione quando diceva che la partecipazione emotiva ha una funzione terapeutica. Ma esagerava quando faceva coincidere l’intero processo relazionale con le semplici qualità di calore umano, schiettezza e empatia da parte del terapeuta. In realtà l’empatia è la condizio sine qua non, ma è la collaborazione la vera arma terapeutica. Da calibrare a secondo del tipo di paziente in analisi: se il paziente è strutturalmente autonomo il terapeuta dovrà comportarsi in maniera più passiva, lasciando che l’altro eserciti la sua indipendenza. Se il paziente è dipendente, il terapeuta deve saper coltivare un rapporto caldo ed empatico ed un atteggiamento più attivo. Se infine il paziente è insieme autonomo e dipendente, cioè desidera intimità ma ha problemi a tollerarla, l’intervento terapeutico deve essere duttile all’alternanza delle esigenze.

Per Beck non è ammissibile un indottrinamento del paziente da parte di un terapeuta visto come il depositario di ciò che è giusto e razionale, in quanto ciò priverebbe la terapia dei contributi correttivi dovuti alla valutazione critica del paziente. E’ invece utile essere sinceri e trasparenti. E’ moralmente corretto e terapeuticamente efficace che il terapeuta cominichi al paziente, in maniera chiara ed esplicita, i propri principi morali fondamentali, i propri believes. E il compito del terapeuta non è già quello di indicare al paziente i valori giusti e il giusto modo di vedere le cose, bensì quello di liberarlo da tutti i condizionamenti che limitano la sua capacità di elaborazione autonoma.

In tutti e tre gli autori, Kelly, Ellis e Beck, mi sembra manchi una adeguata valutazione del ruolo dell’interpretazione del transfert e del controttransfert all’interno del recinto terapeutico.

E ecco gli attuali modelli cognitivisti, i quali si pongono su due poli opposti. In un estremo viene definita l’essenza dell’individuo come sistema autopoietico; nell’altro estremo, da Bowlby in poi, viene sottolienata la interdipendenza fra soggetto ed ambiente. La vera causa di quasi tutte le patologie, secondo quest’ultima ermeneutica della psiche, sarebbe dovuta alla presenza di schemi di attaccamento disfunzionali creati dalla mancanza di figure d’attaccamento, al contempo presenti e capaci di facilitare l’esplorazione dell’ambiente da parte del bambino. Gli interventi cognitivi devono mirare allora a modificare il carattere preverbale di questi schemi. Attraverso diverse vie: l’esperienza emozionale correttiva, il decentramento, la disconferma delle figure introiettate e l’autorevolezza per somiglianza.

Con esperienza emozionale correttiva si intende la capacità del terapeuta di porsi come base sicura per offrire al paziente quell’esperienza di attaccamento sicuro che è dolorosamente mancata nell’infanzia. Secondo Liotti invece la vera causa per cui gli schemi di attaccamento diventano disfunzionali risiede nel fatto che il funzionamento cognitivo è dominato dall’egocentrismo. Il soggetto cioè considera con ostinazione i suoi schemi come assoluti. Se il terapeuta riesce ad evitare di confermare le aspettative del paziente, questi alla fine si decentra rispetto all’egemonia dei propri schemi. Ma come avviene tale trasformazione?

Secondo Weiss e Sampson la fonte della terapia si nutre con la disconferma delle figure introiettate. Soprattutto nei delicati momenti inziali del setting. In quei momenti cioè in cui il paziente sottopone il terapeuta, più o meno consapevolmente, ad una specie di test di sicurezza, per verificare se il terapeuta si comporta al pari delle vecchie figure ambivalenti d’attaccamento, o se sarà in grado di porsi come base sicura. All’opposto secondo Lorenzini e Sassoli lo stabilirsi del terapeuta come base sicura avviene attraverso un fenomeno di autorevolezza per somiglianza. Il terapeuta viene valutato autorevole e significativo dal paziente solo se egli possiede in parte le caratteristiche delle vecchie figure d’attaccamento. Ipotesi solo relativamente accettabile. Anche perché sembra riduzionistico far coincidere la relazione terapeutica nella sua globalità con una semplice relazione d’attaccamento. E in più non appaiono essere definitivamente chiari i meccanismi con cui un’esperienza relazionale positiva col terapeuta determina cambiamenti nei pattern d’attaccamento del paziente.

Meno sviluppati sono i capitoli del libro relativi alle formulazioni che tentano di spiegare l’efficacia terapuetica, ponendo il rapporto individuo-ambiente in secondo piano. Centrando invece l’attenzione sull’individuo come sistema autorganizzantesi.

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Antonio Dorella