Fromm denuncia il compromesso Balint-Jones su Ferenczi

Adattato da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996

Erich Fromm denunciò il compromesso in una lettera inviata il 14 giugno 1958 a Izette de Forest. In essa Balint è accusato di scarso coraggio. Sono inammissibile le concessioni da lui fatte a Jones. Balint, osserva Fromm, concede all’avversario che il loro disaccordo riguarda l’interpretazione dei fatti e non i fatti stessi. Ma i fatti addotti da Jones portano a confermare la diagnosi di follia pronunciata relativamente a Ferenczi. E’ certo che Balint non creda a tale diagnosi ed è appunto ciò a destituire di senso la posizione mantenuta nella sua lettera all’editore. Tuttavia, a testimonianza di quell’ambivalenza o, almeno, ambiguità di cui ho parlato in precedenza per connotare l’atteggiamento nei confronti di Ferenczi da parte di Balint, valga la lettera che quest’ultimo ha inviato a Guntrip in data 12 novembre 1954. In essa egli parla di un coinvolgimento di Ferenczi con le proprie idee che viene definito «altamente nevrotico». Che le idee di Ferenczi siano state accantonate si spiega sia con il motivo appena addotto, sia col fatto che Freud non voleva assolutamente saperne dei risultati derivati da analisi condotte con pazienti profondamente regrediti. La ragione dell’atteggiamento freudiano, scrive Balint, va forse rinvenuta nelle negative esperienze fatte da Freud con i suoi pazienti al tempo in cui praticava l’ipnosi. Più avanti Balint dà ragione a Guntrip che rilevava nel suo lavoro e in quello di altri psicoanalisti la presenza di una chiara eredità ferencziana. Balint però non è solo. Insieme a lui, come ha premura di precisare (e si tratta di una precisazione quanto mai interessante), ci sono Winnicott, Fairbairn e psicoanalisti americani della giovane generazione (di cui peraltro non precisa i nomi).

La lettera inviata a Guntrip va inserita nel contesto della politica psicoanalitica. Balint in effetti dà molta più ragione a Jones di quanto ci si potrebbe legittimamente attendere ovvero, meglio, non ne sconfessa le tesi con decisione. Rimandare l’ardua sentenza ai posteri non costituisce certo prova di grande coraggio e l’impressione che si ricava è quella di un uomo che vuole cavalcare due cavalli (il che è perfettamente in linea, peraltro, con l’appartenenza alla scuola di mezzo della psicoanalisi inglese): il cavallo Ferenczi e il cavallo dell’ortodossia. A tale riguardo vale la pena di menzionare un significativo e pressoché omertoso retroscena. Quando Balint scrisse la lettera per l’International Journal of Psychoanalysis, Jones, con sorprendente capacità psicodiplomatica, riuscì a convincere il suo interlocutore a espungere dalla lettera ogni riferimento al fatto che Ferenczi era stato l’analista dell’uno e dell’altro. Va sottolineato, in tale contesto, come lo psicoanalista inglese, nelle sue Memorie, pubblicate nel 1959, tenga a precisare che il suo primo «istruttore nella tecnica della psicoanalisi» sia stato Otto Gross.

Altro piglio, nell’intricata vicenda, dimostra Fromm, il quale, tuttavia, su Ferenczi ne sa molto di meno di Balint. Nello stesso giorno in cui Fromm invia la sua lettera a Izette de Forest, appare sul Saturday Review il suo articolo Psychoanalysis: Science or Party Line? Fromm scrive intorno allo «spirito di partito» del movimento psicoanalitico e delle sue vittime. Vittime sono state, secondo Fromm, Ferenczi e Rank, «i perdenti» scrive Fromm «nella lotta intestina in seno al movimento psicoanalitico». Fromm giudica senza mezzi termini «fantasiose» le interpretazioni jonesiane relative alle presunti psicosi di Ferenczi e Rank e oppone loro comunicazioni private di persone che, diversamente da Jones, hanno avuto rapporti con Ferenczi nell’ultimo anno della sua vita (Clara Thompson, Elma, Balint) e la stessa diagnosi di Freud che, nel caso di Rank, non parla di psicosi ma di nevrosi. La tesi di Fromm è quella di un movimento psicoanalitico nel quale hanno finito col prevalere «burocrati» in lotta tra loro «con intrighi e macchinazioni», burocrati che sono riusciti anche, con le loro «rivelazioni ufficiali» a «emarginare gli unici due creativi e ingegnosi discepoli freudiani rimasti dopo le defezioni di Jung e Adler».

L’articolo di Fromm costituisce soprattutto una confutazione della versione jonesiana degli avvenimenti occorsi in seno all’associazione psicoanalitica. Viene in particolare stigmatizzato il suo «fanatismo di partito» che lo induce a ostracizzare i dissidenti. Fromm arriva a sostenere che Jones riscrive la storia della psicoanalisi adottando i metodi della storiografia stalinista. Laddove gli stalinisti etichettavano i dissidenti con il termine di «traditori» o «spie», Jones etichetta i dissidenti Rank e Ferenczi con i termini mediati dal linguaggio psichiatrico. La dissidenza da Freud, l’infedeltà al maestro, assurgono a prova della psicosi dei due eretici. La biografia redatta da Jones assurge dal canto suo a esempio di riscrittura staliniana della storia.

Avvalendosi della collaborazione di Rainer Funk, direttore degli Archivi Erich Fromm di Tübingen, Ferenc Erös ha ricostruito tutta la complessa opera di preparazione cui si è dedicato Fromm nella redazione del proprio articolo. Negli Archivi è conservata una interessante corrispondenza tenuta da Fromm negli anni 1957-58 preparatoria all’articolo. Al fine di appurare i fatti (in particolare quelli riguardanti l’ultimo anno di vita di Ferenczi) Fromm si era messo in contatto epistolare con molti «contemporanei» dello psicoanalista ungherese: le psicoanaliste americane Clara Thompson, Izette de Forest, Elizabeth Severn e Alice Lowell, membri della famiglia di Ferenczi, il suo dottore Lajos Lévy e Michael Balint. I «testimoni» interpellati da Fromm si mostrarono concordi nel ritenere che Ferenczi rimase nel pieno delle proprie facoltà mentali fino alla morte. Quello di Fromm, scrive Ferenc Erös, va considerato come un tentativo precoce di riabilitare Ferenczi sia sul piano personale, sia sul piano scientifico. «Precoce» sta evidentemente a significare che i tempi non erano ancora venuti perché tale riabilitazione potesse compiutamente realizzarsi. Secondo Erös la riabilitazione vera e propria avrebbe avuto luogo soltanto venti anni dopo.

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Giorgio Antonelli