Da limite naturale a malattia del mondo. Il Male Vicino sotto la lente dell’antropoanalista

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto

C’è un male che esiste forse perché esistiamo noi, perché esiste l’uomo. Da sempre ci accompagna. Da lungo tempo abbiamo imparato a riconoscerlo. Lo incontriamo ogni giorno nelle malattie, nella morte, negli incidenti, anche i più miseri, che proprio per la loro insulsa banalità mortificano i nostri progetti. Questo male lo portiamo anche dentro di noi: nella fragilità del corpo, così perennemente esposto alle grandi catastrofi come alle insidie minime della natura; nel limite sempre imminente della vita. In certi momenti lo sentiamo insinuarsi, strisciante e senza fretta, in ogni piega mortale della carne. Permettetemi di definirlo: male di primo grado, o, con chi ci ha preceduto, limite naturale. Ma c’è poi anche un’altra specie di male, un male che forse non sospettavamo o che, più verosimilmente rifiutavamo di vedere, e che la storia del ‘900 ci ha invece obbligato a guardare diritto in faccia: è il male dell’indifferenza, dell’alienazione, della crudeltà gratuita. Un male che, con buona pace della Arendt, a me sembra molto meno ovvio del primo, un male che nasce forse quando c’illudiamo di aver superato il male di primo grado, quando dimentichiamo che per noi uomini il limite naturale non è naturalmente fisso ma naturalmente mobile, e, in buona o malafede, lo incolliamo al suo confine, che è poi il nostro confine.

Il presente contributo nasce dall’esigenza d’interrogare le nuove forme del male emergenti dalla storia del ‘900 in una prospettiva che sia al contempo unificante e fondativa. Sarà forse solo perché tanto orribilmente e incomprensibilmente vicino, ma il male che fa irruzione nelle vicende personali e collettive del secolo appena trascorso si manifesta con volti davvero nuovi e spropositati rispetto al passato; sottrae alla scienza ogni argomentazione e disarma il pensiero; lascia la filosofia a corto di logica e la poesia orfana di tragedia. Ciò che in passato vestiva una maschera tragica è diventato nudo dramma.

La tragedia rivelava un male limite naturale, stimmate di un’inesorabile gettatezza che l’eroe trascendeva nell’atto di farsene carico, di sublimarlo assumendolo su di sé. Agamennone che sacrifica Ifigenia; il combattimento all’ultimo sangue di Ettore alla luce dello scacco non ulteriormente aggirabile: emblemi di un male fatale che viene portato con coraggio fino all’ultimo respiro e tramutato in abbraccio consapevole del destino. Così la tragedia era in grado di evocare tutta la grandezza e la profondità del cammino dell’uomo che risale i margini del male naturale per ritrovarsi nel mondo che gli è proprio. Non altrettanto può dirsi per i genocidi del XX secolo, segno di una spietata banalità e insieme di una rottura, di un mondo che cambia e che non può, non sa, o forse, più semplicemente, non vuole riconoscersi nella continuità con ciò che era e con ciò che sarà. L’Olocausto, Timor Est, la ex-Jugoslavia non sono storie tragiche riconducibili all’assiduità di un destino, ma atti unici chiusi in se stessi senza alcuna possibilità di redenzione; drammi paradossali in cui il male si manifesta al di fuori di ogni logica e di ogni ipotesi di congruenza, spesso anche contro le leggi di convenienza economica e naturale.

Le tragedie mettevano in scena un limite naturale; i drammi del XX secolo portano alla ribalta la malattia del mondo; le prime testimoniano la fatica di un’umanità in cammino, i secondi sembrano piuttosto gridare l’impossibilità di ogni cammino: l’impossibilità di un mondo comune e di valori in cui l’umanità possa tornare a riconoscersi, un’impossibilità che inverte la rotta della storia infrangendo le speranze di secoli.

Ma i drammi della Grande Storia non sono l’unica testimonianza del Male di nuova specie che fa capolino dal ‘900. Accanto al massacro degli armeni e alla Shoah, ai conflitti planetari e alle loro crudeltà gratuite, alle efferatezze civili e all’abominio razziale, non possiamo non considerare l’altra faccia del Male che inaspettatamente emerge nel secolo appena trascorso, nudo volto non parimenti devastante ma altrettanto pallido e sconcertante: è Thanatos, è buona parte dell’Es, è il coacervo d’istinti aggressivi ed impulsi autodistruttivi portati allo scoperto dalla lente di Freud. Groviglio di magmatica violenza e cieca ostilità, Thanatos ci si presenta, ospite inattesa, come una lacuna permanente insediata nella vita, spettro ambiguo che da un lato minaccia l’esistenza e dall’altro la rende anche possibile.

Nuove inaudite voci del male si levano con intensità pari e parallela tra le lotte di potere che seminano milioni di morti e gli impulsi aggressivi della psiche messi a nudo dalla lente di Freud; nella volontà di potenza che regge e fonda i rapporti economici, politici, sociali e che già Machiavelli ed Hobbes avevano intuito, e nei sentimenti più intimi e familiari che prima degli altri ci tengono stretti al mondo ed avvinghiati alla vita: dalla furia inconsapevole del complesso di Edipo alla collera infanticida che alimenta tanti casi di cronaca; dall’ostilità xenofoba per il vicino extracominatario agli impulsi autodistruttivi dello straniero interiore.

Abstract

L’autrice inforca le lenti dell’antropoanalista ed osserva i mali del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, tentando di ravvisarne le specificità. L’olocausto, Timor Est e la ex-Jugoslavia da una parte, il disvelamento degli impulsi distruttivi della psiche dall’altra, rappresentano in quest’ottica due facce di un’unica medaglia, da comprendere in forma strutturale. Tre figure del male – la colpa, il terrore e l’indifferenza – vengono esaminate nel loro sviluppo storico-concreto con riferimento ad alcuni topoi filosofici e letterari. Epitteto ed Agostino, Aristotele e Machiavelli permettono all’autrice di riflettere sulle nostre comuni radici, di ritrovare, nel confronto tra passato e presente, l’origine oscura dell’attuale presenza (Dasein). Le sembra cosi di poter scorgere che il Male del XX secolo è forse un male di secondo grado, una malattia del mondo che nasce quando si arresta la dialettica del male come confine naturale. Prometeo ed Adamo, per esempio, rischiano la colpa sfidando un limite imposto. Per entrambi, come per i filosofi stoici, il male è innanzitutto un limite dinamico e connaturato all’esistenza umana, un peso di cui occorre farsi carico per non incorrere in un male peggiore. Pur colpevoli, e proprio nella loro colpa, Prometeo ed Adamo sono figure eroiche e profondamente umane. Anche Agamennone accetta di farsi latore di un male relativo, di quel limite perennemente instabile e mai preventivamente determinabile che è il portato stesso dell’umano esser-ci. In effetti la tragedia classica, ripetendo il mito ed incrociando fato a responsabilità, rappresenta in forma paradigmatica la dialettica del male-limite naturale. Le Grandi Guerre e i genocidi del XX secolo, invece, somigliano ognuno a un dramma in un unico atto, e ciascuno sembra ripetere in forma separata la malattia di un mondo che ha smarrito il senso dei propri confini.

Condividi:
L'autore
Avatar photo
Luisa De Paula