Miele (2013), di Valeria Golino
Con Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Iaia Forte,
Vinicio Marchioni, Roberto De Francesco
Regia di Valeria Golino
Tratto dal romanzo A nome tuo di Mauro Covacich
La conquista del proprio intimo destino avviene spesso attraversando strade tortuose e mal tracciate. Miele (opera prima di Valeria Golino) narra del percorso esistenziale di una giovane donna che sceglie di affrontare in prima persona la grande assente della nostra Società: la morte.
Per farlo, si assumerà il compito di accompagnare verso l’inevitabile limite malati incurabili la cui esistenza è ormai talmente dolorosa e complessa, da non poter essere definita (se non con pesanti riserve) una “vita”.
Miele (pseudonimo della protagonista, impersonata da Jasmine Trinca) si infiltra nel vuoto di riflessione e di regolamentazione nel quale si trova il nostro Paese rispetto all’eutanasia, per portare a termine quella che considera una missione. Il film ci immette da subito e senza parafrasi nel tema principe, mostrandoci la procedura escogitata a tal fine, gli stratagemmi per evitare qualsiasi conseguenza penale per lei e i familiari, la ritualità che fa da cornice al tutto, i sentimenti del morente e delle persone care.
La seguiamo, così, di casa in casa, di sofferenza in sofferenza, mentre prosegue nella sua penosa opera, finché un giorno, qualcosa interviene ad interrompere la routine: uno dei suoi clienti (l’intenso Carlo Cecchi), dopo aver ricevuto da lei istruzioni e medicinali per eseguire autonomamente la procedura, le rivela di non essere affatto malato, ma di voler semplicemente morire, perché non sopporta più l’esistenza.
Il conflitto morale, rimasto a lungo sottotraccia nella vita di Irene (il vero nome di Miele), ritorna allora prepotentemente nella sua vita attraverso l’incontro con l’improbabile Altro della malattia, il suo versante interiore: il male di vivere, quel versante al quale bisogna “credere” per capire quanto possa essere, a suo modo, invalidante.
Lentamente, fra molte perplessità, Irene e Carlo giungeranno ad una relazione molto particolare nella quale riusciranno ad esporre la loro intimità, sia all’Altro, sia a sé stessi. Come una pentola a pressione rimasta sul fuoco per troppo tempo, l’intimità sgorga inesauribile dai discorsi dei protagonisti, e li conduce inesorabilmente a una profonda revisione dei presupposti sui quali la loro vita si è retta fino a quel momento. Abbandonate le maschere rassicuranti dietro le quali hanno giustificato finora le scelte fatte, troveranno nella sincerità dei morenti un motivo per rimettersi in discussione e compiere nuove scelte, in modo più consapevole, lasciando dietro di sé tanti interrogativi, e poche risposte.
La prima prova registica della Golino è veramente notevole: una fotografia essenziale, che non appesantisce lo sguardo, l’accurata scelta degli interni e delle location, e l’ottimo lavoro degli attori che raggiungono una resa molto intimista dei loro personaggi, contribuiscono ad immettere gli spettatori in una profonda riflessione su grandi interrogativi esistenziali. Una scena devastante, spicca su tutte per intensità emotiva: l’eutanasia di un giovane ragazzo, vittima di una patologia altamente invalidante, che lo porta prossimo all’incomunicabilità attraverso il linguaggio, e la cui scelta di lasciar andare la vita, rimane affidata quasi solo allo sguardo, a quegli “occhi di un uomo che muore” di cui cantava molti anni fa, Fabrizio De André. L’ineffabilità della morte e della vita, si affermano di nuovo, con prepotenza, in quello sguardo nel quale ognuno di noi può, in fondo, ritrovare anche se stesso.