Cos’è il padre nella concezione psicoanalitica classica? È l’interdizione, la negazione del desiderio incestuoso di Edipo. Il padre nega, attraverso la Legge, il proposito insano del figlio e ne facilita così il distacco dalla madre e dalle proprie origini favorendo lo sviluppo della personalità autonoma. Ma oggi, nell’era definita dall’autore “ipermoderna”, qual è l’attualità di questo postulato freudiano? La funzione del Padre e della legge sono in disfacimento, già per Freud sulla figura paterna grava un’ambivalenza, quella di essere l’agente della castrazione e di portare contemporaneamente su di sé i segni di questo gesto: al padre ideale spesso si affianca il padre reale che può diventare esempio della trasgressione della Legge che egli stesso impone.
Lacan introduce il discorso del tramonto della figura paterna già nel 1938 quando vedeva raffigurata la fine dell’Ideale nell’affermazione dei dittatori dei regimi totalitari novecenteschi. E poi ancora nel 1969 con la contestazione giovanile e l’affermarsi dei modelli dei mercati comuni ciò che viene meno è la funzione del padre edipico, sia quando questo prende la forma totemica del padre-dittatore, sia quando diviene il nemico da abbattere nelle forme della società patriarcale perché in entrambe i casi vi è un fraintendimento radicale della sua funzione simbolica.
I dittatori sono una risposta allo sbriciolamento del sistema familiare attraverso l’imposizione autoritaria e cieca della Legge che ricompone e rassicura momentaneamente il sistema borghese e le masse spaventate che invocano a gran voce nel despota il ritorno del padre perduto. A questo tramonto e alla sua deriva fa seguito nel ’69 l’evaporazione del padre attraverso la critica antiedipica che curiosamente coincide con l’affermarsi del discorso del capitalista che distrugge ogni ideale e quindi anche quello paterno. La dissoluzione della funzione della Legge e della castrazione simbolica serve ad allontanare l’esperienza del limite e a proporre un universo senza più freni, soprattutto simbolici. L’esperienza simbolica della castrazione portava a questo, a porre l’individuo di fronte all’esperienza del limite, svanita questa tutto è possibile e in fondo quindi niente se non l’annientamento, la coazione a ripetere, lo sganciamento del desiderio dal suo soddisfacimento. Il discorso del capitalista porta il soggetto a credere di non aver alcun vincolo nella propria volontà di godimento, ma l’oggetto del desiderio si confonde, si identifica con una grande quantità di oggetti e la sua essenza sfugge. La volontà si allontana dal proprio soddisfacimento e diviene fine a se stessa non perché l’oggetto non possa essere goduto, ma perché è il desiderio che non può trovare soddisfazione e questa mancanza crea un vuoto di scopo. Il discorso del capitalista è ambiguo: da un lato si fonda sulla fede incrollabile nell’oggetto, dall’altro la sopravvivenza di questa fede è legata alla sparizione del soddisfacimento dell’oggetto. Esso diviene feticcio, marca (brand), stile di vita, ma la sua realtà diviene vuota, vacua così come il suo godimento. Il piacere non si lega più al desiderio, ma lo scavalca e trascina l’individuo verso una “consumazione” della vita. Questo avviene perché è scomparsa la funzione simbolica della Legge che serviva ad umanizzare il desiderio. Il desiderio è frutto di un processo di individuazione che sposta le forze desideranti inaccettabili verso l’oggetto accettabile e accettato, senza questa Legge non c’è desiderio. L’altro cardine sul quale si regge il discorso del capitalista è l’esclusione delle “cose dell’amore” dalla sfera del desiderio escludendo l’Altro e decretando il trionfo dell’oggetto. La Legge del padre tendeva a portare, con la minaccia della castrazione, il desiderio verso la sua naturale realizzazione nell’amore dell’Altro. Evaporando questa funzione simbolica si spezza l’alleanza tra Legge e desiderio e dove tramonta l’amore c’è il trionfo della morte intesa come pulsione di morte.
La funzione simbolica del padre è appunto nell’unire il desiderio alla Legge attraverso un processo di conciliazione. Questa unione avviene non solamente attraverso la coercizione autoritaria, ma soprattutto offrendo una sponda al desiderio debordante. I totalitarismi hanno rappresentato storicamente la prima deriva di questa funzione simbolica ossia l’autoritarismo assoluto. La contestazione studentesca ha rappresentato in seguito la seconda deriva, la rivendicazione post-ideologica del godimento privo di qualsiasi vincolo.
Da questo vicolo cieco la psicoanalisi tenta una via di uscita attraverso la ridefinizione della funzione paterna nei termini di imposizione di una volontà che può anche non trovare giustificazione (un “no!” che può anche essere non motivato) poiché la legge della castrazione è la condizione strutturale del desiderio, senza questa interdizione simbolica al godimento assoluto non può esserci desiderio.
La legge simbolica impone la necessità del distacco, la parola traumatica del padre allontana il figlio dall’oggetto incestuoso, lo scaccia e solo in questo modo lo pone di fronte alla possibilità di conoscere perché fissa il limite invalicabile dal quale il figlio deve arretrare. L’autore parla della cacciata biblica di Adamo ed Eva che vogliono mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male (il peccato di conoscenza è peccato di concupiscenza) e il limite è l’unica condizione della conoscenza (infatti i loro occhi poi si aprono). Il limite di ogni sapere è definito dai concetti di vita e di morte i quali sono il limite anche nella trasmissione del sapere tra le generazioni: di fronte a questo vuoto e solo ammettendo questo può avvenire lo scambio simbolico tra padre e figlio ossia la trasmissione della testimonianza della conoscenza tra le generazioni. Qui siamo arrivati al punto nodale del libro: quel che resta del padre nel tempo della sua evaporazione è il fatto che non è più lui la figura ideale che possa indicare cosa sia “una vita giusta o il criterio universale della felicità” perché nessuno al mondo possiede questo sapere. Quello che il padre può trasmettere è la sua testimonianza dell’impossibilità stessa di questo sapere. In questo modo può tornare a stringersi il nodo che unisce la Legge al Desiderio.
L’Edipo deve percorrere tre fasi. La prima è quella dell’illusione fallica che vede madre e figlio avvinti in un legame incestuoso di confusione simbiotica. La seconda è quella dell’apparizione traumatica della parola del padre, il No! che spezza l’illusione della continuità tra l’Uno e l’Altro, impone il diniego primario e rende possibile il patto sociale. I legami sociali, come quelli amorosi, sono possibili solo se si rompe il legame primario. Questa Legge comunque non deve limitarsi all’interdizione altrimenti non rappresenta un vero riconoscimento dell’Altro e non trasmette nulla. L’interdizione deve legarsi al dono della possibilità del desiderio, senza questa promessa il desiderio si sgancia dalla Legge e da solo due esiti possibili: la Legge senza desiderio che è oppressione, frustrazione e svilimento; il desiderio senza Legge che è godimento dissipativo. La psicoanalisi assegna a questa discordanza tra desiderio e Legge il nome di Super-io, siamo alla “alterazione superegoica della funzione paterna”.
Fondamentale, come si vede, è la terza fase che l’Edipo deve attraversare quando l’interdizione rende possibile la trasmissione del desiderio. Quel che resta del padre è nella trasmissione della testimonianza personale, singolare, di come si possano tenere uniti legge e desiderio. Il padre del terzo Edipo non è solo normativo ma, dato per certo che non esiste una testimonianza universale valida per tutti, è testimonianza di un’etica personale, della propria via verso la vita e il desiderio. Lacan direbbe che la funzione paterna può essere a questo punto incarnata da chiunque si assuma la responsabilità di testimoniare la propria risposta etica per il ricongiungimento tra legge e desiderio. Il padre è colui che custodisce questo grande limite dovuto al fatto che non si può sapere nulla della vita e della morte e nonostante questo al vuoto risponde con la forza del proprio desiderio, è la risposta del singolo di fronte all’impossibilità di raggiungere un sapere reale sull’esistenza. Quindi il padre deve opporre al vuoto non il nichilismo ipermoderno né l’autoritarismo cieco, ma la propria testimonianza.
Nel percorso di crescita non può non esserci conflitto. Questo prevede un riconoscimento dell’alterità che deve essere rispettata altrimenti non c’è conflitto, ma solo violenza, come accade nelle piazze dove l’autorità non riconosce le ragioni di chi manifesta perché nega il dialogo e, in virtù di questo, la possibilità di istituire una nuova forma di legame. La violenza nega qualsiasi forma di discorso, è la rottura del riconoscimento dell’Altro come realtà, come interlocutore possibile, pretende un accesso immediato all’oggetto verso cui si muove, in un certo senso è il risultato di un’esigenza di godimento senza il freno della castrazione. Il conflitto al contrario è una rielaborazione culturale della violenza, i genitori non devono negarlo, ma affrontarlo perché è necessario che si mostrino in grado di reggere a questo urto. Se invece questo non accade la distanza tra le generazioni si assottiglia, le posizioni nei rapporti parentali si appiattiscono e il dialogo vuoto di contenuti diviene un sottofondo inutile e continuo che non implica nessuna responsabilità proprio perché il genitore non è più pronto a rispondere al vuoto di senso con la forza della propria Legge e del proprio desiderio. Essere genitori oggi vuol dire essere in grado di educare al limite, saper dire di no e saper indirizzare verso desideri non distruttivi. Il disagio che si avverte è legato soprattutto all’incitamento capitalistico a un godimento continuo e insoddisfacente unito al declino della funzione simbolica della castrazione. Incredibilmente nel rutilante richiamo delle merci il disagio è dato dalla difficoltà di accesso al desiderio che dipende direttamente dall’assenza della Legge del padre e del suo potere di interdizione. I padri devono tornare a rappresentare una possibilità di esistere, devono trasmettere il loro modo di vivere assumendosi la responsabilità di imporre la loro Legge e di tramandare il loro esempio. Altro assillo dei genitori è quanto i figli riescano e abbiano successo in ciò che fanno. Tutti vogliono figli perfetti, rifiutano di fare i conti con l’insuccesso, che immancabilmente prima o poi arriva, ma lo nascondono. Il figlio ideale prende il posto di quello reale, viene scansata e corretta ogni imperfezione, il figlio viene addestrato alla prestazione che deve alla fine riuscire ad eseguire correttamente e scongiurare il fallimento. Tuttavia al successo non segue la soddisfazione. La psicoanalisi, dice Recalcati, tesse l’elogio del fallimento in quanto manifestazione del funzionamento dell’inconscio, riflesso di un atto mancato. Un atto mancato dell’Io è un atto riuscito per il soggetto dell’inconscio. Il fallimento è proprio della giovinezza, dell’età della sperimentazione, rappresenta la vitalità dell’essere di fronte alla morte imperante del tramonto del desiderio. Riscoprendo questa realtà, che l’essere umano è fallimentare, che per sua natura è portato al fallimento, cade il velo dell’illusione che sia propria dell’uomo la tensione alla perfezione del godimento mentre invece è nella mancanza la vera umanità. L’affermazione eterna del capitalista disumanizza il desiderio perché lo rende sempre accessibile e presente, ma vuoto e senza soddisfazione. Nella rivendicazione del fallimento dell’oggetto può tornare la libertà, quella soprattutto data dal ritorno dal Padre e della sua Legge.