di Neil LaBute, Regia di Marcello Cotugno, Con Alessia Giuliani, Paolo Sassanelli, Violante Placido, Fulvio Pepe
“Bash” è un termine dal doppio significato: “pestaggio” e “festa”.
Nella commedia, la doppia valenza espressa dal titolo diventa emblematica di una esistenza nella quale gli elementi mortiferi sembrano confondersi con quelli più quotidiani e banali.
La commedia, rappresentata per la prima volta nel 1999 a New York, Off Broadway, al Douglas Fairbanks Theatre, è arrivata recentemente in Italia grazie alla regia di Marcello Cotugno.
La scelta del regista appare tempestivamente centrata rispetto agli accadimenti che viviamo o che, per meglio dire, conosciamo attraverso le pagine di una cronaca che ben può definirsi nera.
Una cronaca che sempre più spesso ci racconta di “morti inutili”, prive di ogni senso comune, dove, soltanto a fatica, possiamo cercare di rintracciare significati che non siano la sola espressione di un vuoto di valori.
Basta soltanto accennare ai tragicamente insensati lanci di sassi dai cavalcavia, o ai fatti di Novi Ligure, ai due adolescenti che progettano ed attuano un omicidio come in una sorta di macabro gioco, o all’attuale ineffabile infanticidio di Cogne, per cogliere quanto spesso la morte, persa ogni sacralità, divenga fatto slegato da ogni umana logica e quindi in-accettabile.
In “Bash”, come lo stesso autore suggerisce, il “new black” si configura nella atrocità di morti che, proprio in quanto in-utili, lasciano nello spettatore un senso di inaccettabilità.
Il testo di LaBute si divide in tre atti unici.
Nel primo assistiamo alla confessione/monologo di una giovane donna che, violentata e resa madre a tredici anni dal professore di inglese, trascorre in una apparente quieta accettazione il tradimento e l’abbandono dell’uomo.
Dopo quattordici anni, avendolo cercato e incontrato, uccide il figlio nato da quel lontano rapporto in una sorta di dilazionata e esterefatta vendetta trasversale.
Nel secondo, un uomo sui trentacinque anni racconta ad uno sconosciuto, nel bar di un motel, la morte della propria figlia di pochi mesi. Una morte, se non proprio cercata, lasciata avvenire: nello sragionante pensiero dell’uomo questo elemento avrebbe potuto tornargli utile, aiutandolo ad evitare un licenziamento per la pietà che da quella perdita gli sarebbe derivata.
Nel terzo, una coppia di giovani fidanzati racconta al pubblico, in una sorta di alternato monologo, l’eccitante trasferta, compiuta insieme agli amici, per recarsi ad una festa a New York. Attraverso la frivola e compiaciuta descrizione degli abiti, nella vuotezza dei clichès mentali tipici degli adolescenti non solo americani, si perviene
Al racconto dell’omicidio di un omosessuale. E’ il protagonista maschile a compierlo, aiutato dagli amici, in una delirante azione punitiva in un bagno di Central Park.
Il linguaggio che unifica, pur nella diversità dei ruoli, lo stile comunicativo dei protagonisti è frammentato e frammentario, così come la sequenza delle azioni, che sembra sfuggire ad ogni prevedibilità razionale.
In “Bash” l’assurdo si mescola alla quotidianità, e ne viene tragicamente riassorbito in una progressiva perdita di senso.
Ne emerge un quadro desolato e desolante, non lontano dai modi e dai mondi di quella cronaca nera alla quale facevamo cenno.
La regia di Marcello Cotugno sa cogliere ed evidenziare anche le analogie tra questo contesto attuale e l’universo delle tragedie greche: in entrambi i mondi scorre il filo della morte, la violenza gratuita, la soppressione dell’Altro come gesto apparentemente liberatorio.
I sostanziali ed elementari valori umani sembrano perdersi in una corsa verso il nulla che, paradossalmente, crea nello spettatore una rinnovata ricerca di senso.