Fulvio Salza, La tentazione estetica. Jung, l’arte, la letteratura, a cura di Silvia D’Offizi
Karoly Kerènyi, a uno studente che gli propose una tesi su Jung e l’estetica, rispose che sarebbe stato come trattare il tema della presenza dei serpenti in Islanda: inutile perché non ce ne sono, come nella sua opinione nulla aveva nel pensiero di Jung un ruolo minore del tema dell’estetica.
Lo studente non si lasciò scoraggiare e portò a termine una tesi a cui diede il titolo “I serpenti in Islanda”.
Nella vasta opera di Jung, a dire il vero, c’è poco spazio per considerazioni riguardanti il bello, tuttavia esiste una contraddizione nel fatto che egli ebbe sempre a che fare con l’arte e per essa ebbe un interesse (ad eccezione della musica) che andava al di là dell’ambito psicologico. Questa tensione al bello giustifica il titolo del libro: la tentazione estetica. Superare questa tentazione non significò per lui un rifiuto dell’arte, ma una definizione dell’arte come un’oscillazione tra due poli: arte non simbolica e arte simbolica o visionaria. A quet’ultima è attribuita una funzione meta-estetica che può correggere gli indirizzi unilaterali della coscienza di una determinata epoca.
RICORDI D’INFANZIA- L’ESPERIENZA DELLA CATTEDRALE
Nel primo capitolo dello scritto autobiografico Ricordi, sogni, riflessioni un passaggio testimonia della precoce attenzione di Jung per la bellezza artistica. L’autore parla di un rapimento estatico di fronte a due quadri appesi in una stanza buia nella casa dei suoi genitori. Jung bambino e adolescente si abbandonava a delle fantasticherie che appartenevano a due aspetti della sua personalità: il primo riguarda l’introversione come forma di chiusura al mondo, una sorta di “opposizione alla vita” che lo avrebbe portato a dei tentativi inconsapevoli di suicidio già a due anni, causati in parte dalla litigiosità dei genitori.
Il secondo aspetto è legato a un eccesso di emotività stimolato dalla contemplazione del bello e dovuto in parte alla psicologia protestante e alle esperienze infantili. Un’esperienza che segnò profondamente il rapporto di Jung con la fede è legata a una visione che ha come punto di partenza la contemplazione della bellezza. Si tratta di una visione della cattedrale che si staglia magnifica nel cielo, ma sulla quale Dio comincia a defecare distruggendola. Tale visione gli provocò non un senso di colpa, ma l’esperienza della Grazia Divina per eccellenza. E Dio poteva essere anche terribile in una coesistenza di opposti che ne definivano la perfezione. A Dio dunque Jung accede attraverso il peccato di una visione “scandalosa”. Suo padre, in questo senso, non aveva mai fatto esperienza di Dio.
La fantasia della cattedrale “è un punto di partenza per i suoi successivi studi. Legge di tutto ma le risposte di ordine teologico che cerca le trova nel Faust di Goethe e il suo punto di riferimento in ambito filosofico diviene Kant. Quest’ultimo era stato critico della ragion pura, ma soprattutto, e in virtù di questo fondamento epistemologico, egli apriva la via alla ricerca scientifica. L’ultimo incontro filosofico Jung lo ha con Nietzsche, altro figlio di un pastore a cui teme fortemente di assomigliare. E i suoi timori trovano un fondamento con la lettura dello Zarathustra. In questa figura vede una sorta di alter ego che poteva portare verso una deriva patologica. La sua scrittura simbolica, e per questo poco comprensibile al mondo dei non illuminati, faceva di lui un poeta ma poneva un forte limite di intelligibilità al suo punto di vista. La filosofia per Jung andava abbandonata perché troppo mirata a concetti che sono al di là dell’esperienza, quindi non conoscibili completamente. Si orientò a discipline più centrate sulla conoscenza dei fatti e cercò quella che potesse coniugare l’elemento empirico alla definizione di un significato attribuibile a quell’elemento. A questa esigenza per primo rispose lo studio della medicina, ed in particolare della psichiatria. Fu il manuale di Krafft-Ebing per primo ad ispirarlo, oltre alla frequentazione di sedute spiritiche a casa di parenti. Da queste sedute, gestite da una medium che era anche sua cugina, egli trasse la sua tesi di laurea. Non trovò conferme alle teorie spiritiste, ma una rappresentazione della dinamiche psicologiche: “fatti obiettivi, attinenti alla psiche”.
Questo era ciò che stava cercando, il punto di vista psicologico. Questo è forse il momento in cui si definisce il concetto di “dimensione psichica”. Esistono fatti psichici che non possono essere messi in discussione, delle evidenze che scavalcano le ipostasi della filosofia. Al loro posto c’è un soggetto empirico dal quale (e non verso il quale) partono molteplici tensioni. Solo in Freud sembra riemergere l’io trascendentale come insieme di strutture psicologiche oggettive e universali.
Quindi Jung svilupperà in seguito l’idea di un soggetto conoscente non neutro in campo psicologico. Per tornare al suo percorso di formazione, sceglierà la specializzazione in psichiatria e si trasferirà da Basilea a Zurigo intraprendendo lo studio di tutto ciò che avesse attinenza con la contingenza, ciò che è probabile, mediocre, privo di significato, rifiutando lo studio dell’”eccezionale” per riportarlo alla dimensione comune. Negli anni universitari sono quasi i riferimenti alla dimensione artistica.
CRIPTOMNESIA
Il titolo della tesi di laurea di Jung è “Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti” e l’autore si attiene per la compilazione alla letteratura scientifica. Fa riferimento, nell’interpretazione, alla psicologia dinamica e in particolare a Freud, ma anche a Flournoy perché entrambi trattano del contenuto dei fenomeni patologici per le relazioni significative, un interesse che all’epoca non riguardava gli psichiatri.
Jung invece fa proprio questo studio delle relazioni, spesso si avvale del metodo dei test associativi per trovare soprattutto nessi significativi latenti che emergono nei sintomi. Per spiegare i fenomeni associativi Jung usa il concetto di “complesso a tonalità emotiva”.
Il suo saggio Criptomnesia tratta delle implicazioni psicologiche legate al plagio ed è una risposta a due scritti apparsi su una rivista berlinese che accusavano di plagio uno scrittore teatrale. Uno dei due sosteneva l’involontarietà del plagio in quanto poteva trattarsi di criptomnesia (termine ripreso da Flournoy).
Jung parte dall’assunto che l’inconscio può creare delle reti associative simili a quelle dello stato di coscienza e con esse inferenti. Un’intuizione improvvisa è il modo in cui emerge un elemento della catena associativa inconscia. Nel campo della creazione artistica l’associazione inconscia è preponderante e qui Jung fa un lombrosiano accostamento tra genio e follia poiché l’artista interpreta in maniera acritica l’intuizione che gli viene dall’inconscio. Il meccanismo artistico è molto simile a quello dell’isteria poiché sia il genio che l’isterico “soffrono di ricordi” e quindi dello “strapotere del complesso psichico”. Il complesso psichico può essere sopportato bene e trasformarsi in atto creativo oppure sopportato con sofferenza cosicché ciò che fa soffrire viene trasformato in versi, dipinti… il plagio è possibile poiché l’originalità dell’opera risiede tutta nella combinazione degli elementi psichici. Solo le combinazioni sono nuove, non il materiale poiché la psiche non è così varia da costituire sempre “tutto il mondo”. Inoltre c’è l’insidia dovuta alla memoria che fa affiorare ricordi presentandoli come realtà nuove. Il genio artistico si differenzia dalla follia perché riesce a ricomporre frammenti di inconscio in un’opera nuova.
FREUD E L’EDIPO
Jung e Freud divergeranno fin da subito sulla questione della “sopravvalutazione dell’eziologia sessuale”. Jung pone un’altra pulsione di base accanto al sesso e cioè la fame e nella diagnosi dell’isteria ritiene che la genesi della malattia sia in modo prevalente, ma non esclusivo, legata alla sessualità. Questo vale anche per la schizofrenia. In ogni caso Jung mostra per Freud una devozione quasi religiosa e pur rimanendo in parte legato ad interpretazioni psichiatriche aderisce alla psicoanalisi fino a diventare presidente della Associazione Psicoanalitica Internazionale. La corrispondenza tra i due contiene solo sporadici riferimenti all’arte.
Le differenze e divergenze tra Jung e Freud emergono con più vigore al ritorno da un viaggio in America, quando compare nella corrispondenza un tema nuovo di discussione: il mito.
Lo studio della mitologia sfocerà per Jung nella stesura del saggio “Trasformazioni e simboli della libido”. Egli studia la mitologia come naturale prosecuzione dei suoi studi sulla schizofrenia perché in essa vede un modo per chiarire certi aspetti della malattia. Vede nel mito, inteso come prima forma di narrazione dell’umanità, la chiave di lettura fondativi degli studi intorno alle nevrosi. Il mito è l’anello di congiunzione tra la storia e la psicologia.
Freud dapprima aderisce a questa prospettiva interpretativa, ma poi se ne distacca. Jung progredisce nell’analisi dell’Edipo, ma se Freud inizialmente era incuriosito dai suoi studi poi ne viene fortemente infastidito perché non solo si distaccavano dalla sua teoria, ma a tratti la contraddicono. Così l’incesto non è un iniziale desiderio della madre poi frustrato dal divieto del padre, ma una simbolizzazione legata al mito della rinascita e al desiderio di tornare nel grembo materno. Desiderio frustrato dal divieto di incesto che viene aggirato nei tanti modi che il mito descrive. La rinascita va intesa come superamento ma il simbolo della madre è ambivalente: esso va inteso insieme come nascita e come morte. Sottoforma di libido ci pone di fronte al bivio, alla scelta tra l’annientamento e la nuova vita rappresentata dall’abbandono della madre attraverso l’accettazione del momento presente obliando per sempre i desideri di eternità e rinascita e accettando la propria morte.
La libido assume in questa visione una natura antitetica, divisa in una tendenza progressiva e una regressiva presenti nello stesso momento, ma la tendenza progressiva è propria della prima parte della vita, quella regressiva della seconda parte solo che l’una presenta aspetti dell’altra e viceversa. Freud rifiuta questa visione della libido pensata come energia psichica che inoltre renderebbe superflua la rimozione come causa della dinamica psichica.
Essenzialmente Jung non ritiene che l’incesto derivi dagli spostamenti della libido e nelle sue considerazioni non compare la figura paterna. L’Edipo si riduce al binomio madre-figlio è il bisogno è essenzialmente bisogno di rimozione che fa ricorso al divieto dell’incesto come simbolo, ossia come mezzo per canalizzare le cariche “energiche” dell’individuo. La rimozione non è una castrazione in senso negativo, ma una positiva esigenza della libido per distaccarsi dal proprio passato che viene simbolizzato in modo emblematico nella figura della madre. Da questo viene una nuova concezione della cultura non più intesa come spostamento, ma come prodotto “di una tensione umana originale”. Il simbolo diviene l’emblema intorno al quale la cultura si costruisce.
UNA PSICOLOGIA ERMENEUTICA
Secondo Freud il tradimento di Jung verso la psicoanalisi si consumò con il ciclo di lezioni tenuto alla Fordham University di New York nel 1912. Il concetto chiave di questo tradimento gira intorno alla libido e un riferimento all’arte è utilizzato come esempio. Per Jung il concetto di libido deve passare dalla sessualità a tutto l’aspetto energetico dell’individuo. Numerose funzioni complesse non hanno carattere sessuale e questo vale anche per la funzione artistica “i cui primi indizi si trovano già nell’animale”. Gli istinti artistici dell’animale sono al servizio della riproduzione e si presentano sottoforma di specificità causale nella sessualità. Tuttavia il primitivo carattere sessuale dei fenomeni biologici si perde con la supremazia nel tempo della loro autonomia funzionale (la musica trova la sua primitiva origine nei richiami dell’accoppiamento, ma sarebbe oltremodo riduttivo collocarla nella categoria della sessualità).
La libido viene dunque tradotta da Jung nel concetto di energia e l’arte testimonia di come non si possa ridurre la libido alla sfera della sessualità. Se ogni costruzione psicologica trova il suo fondamento in essa Jung, tuttavia, accusa Freud di riduttivismo e di avere un approccio “all’indietro” con procedimento analitico-riduttivo invece che in avanti in modo costruttivo.in un certo senso cercare nella sessualità la spinta causale delle azioni porta Freud a cercare l’umano- troppo umano in ogni cosa, anche nella forma artistica. Per comprendere pienamente l’arte non basta inseguire il metodo scientifico andando alla ricerca della causa prima, bisogna cercare di comprendere in che modo l’uomo si sia distinto da questa causa prima raggiungendo un’autonomia funzionale. Ogni pretesa di oggettività scientifica in ambito artistico può essere smontata dal fatto che la comprensione di ciò che è psicologico è filtrata dalla soggettività. L’oggetto della comprensione è per prima cosa lo stesso soggetto conoscente attraverso le produzioni psichiche altrui.
Le produzioni psichiche degli altri costruiscono finti oggetti attraverso i quali il soggetto indaga se stesso. Esiste una relatività soggettiva in ogni conoscenza, non vediamo le cose per come sono ma per come siamo. In tal senso la conoscenza è autodescrittiva, anche se si è cercato in tutti i modi di trasformarla nel suo contrario, ossia nella psicologia oggettiva.
Jung invece propone una psicologia non oggettiva, non causale e soprattutto individuale.
Tuttavia la comprensione non può essere solo individuale perché sconfinerebbe nella nevrosi, ma deve essere “in accordo con quella di molti altri esseri ragionevoli”. Questa è l’intersoggettività che porta alla definizione dei tipi generali. L’interpretazione dell’opera d’arte è presa da Jung a modello del metodo costruttivo di indagine.
L’ABBANDONO DELL’IMMAGINE. LA TENTAZIONE ESTETICA
Allo scoppio della I guerra mondiale Jung aveva già cominciato il percorso di interpretazione delle immagini che scaturivano dalle proprie fantasie. Immagini fosche e angoscianti presagio della tragedia che incombeva sul mondo. Ora gli restava di comprendere come la sua esperienza personale coincideva con quella dell’umanità. Il senso di questa intuizione era contenuto in un sogno sulla glaciazione, è l’intuizione più significativa è nel constatare che questa operazione non aveva nulla a che vedere con la scienza del suo tempo, ma con l’arte. La considerazione gli viene suggerita da una voce interiore di natura femminile. La presenza femminile all’interno dell’uomo è la struttura archetipica dell’anima. L’anima è il tramite tra conscio e inconscio, sovrintende quindi alla trasformazione degli stati emotivi in immagini. Jung si ribella al suggerimento di questa voce, rifiuta di considerare arte il suo confronto con le immagini perché per lui l’arte si contempla, si può avere nei suoi riguardi solo questo tipo di atteggiamento che non coincideva con il suo modo di guardare alle immagini prodotte dalla sua fantasia. Quest’ultime, per assumere valenza artistica, avrebbero dovuto essere disambiguate dalla coscienza mentre invece rimanevano manifestazioni dell’inconscio. le immagini dell’inconscio vanno ricondotte alla realtà: questa è la posizione che fa di Jung, a suo dire, un filisteo e questa è anche la condizione che egli riconosce all’arte, anche se non a tutta.
Il lavoro che egli fa sulle immagini consiste innanzitutto nel capirle. Deve ancorarle alla realtà umana attraverso quel processo che per lui significa comprensione scientifica. A questo procedimento segue l’impegno morale. Anche la comprensione delle immagini è un impegno morale verso di esse perché è la premessa per tradurle nella vita reale, ad ogni obbligo intellettuale deve seguire un impegno morale.
L’impegno intellettuale rispetto alle immagini sta nel ricollocarle all’interno di un processo storico, ossia ricostruire il succedersi delle immagini nella storia della cultura. Il radicamento storico dell’immagine ne garantisce l’ancoraggio al reale, che avviene attraverso la comprensione intellettuale e l’impegno morale.
SEPTEM SERMONES AD MORTUOS
È un testo composto nel 1916, è stato pubblicato in appendice ai “Ricordi”. In esso ci sono i pensieri di Jung negli anni tra il 1913 e il 1917, ma fu composto di getto in tre sere come risposta ad una invesione spiritica della casa di Kusnacht. Contemporaneamente corrisponde alla traduzione dei discorsi del guru interiore Filemone che testimonia dell’interesse di Jung per la gnosi.
In esso si trovano i termini pleroma, creatura e la facoltà della distinzione propria della creatura Jaffè e Heising riconoscono a questo testo una valenza psicologica in ragione della quale identificano nel pleroma l’inconscio collettivo e nella creatura l’energia libidinale presente in ogni individuo. Dall’inconscio l’energia emerge sottoforma di coscienza distinguendosi. Le qualità, che nel pleroma si annullano, possono essere paragonate agli archetipi e la follia consiste nell’identificazione con l’archetipo. La distinzione sana della creatura invece può avvenire solo se questa riesce a mantenersi in equilibrio tra gli opposti. In questo, che potremmo definire principium individuationis, si nota anche un riferimento a Schopenhauer.
IL MANDALA
Il mandala è per Jung un forte riferimento a una tradizione di uso dell’immagine. In alcune tradizioni esso è lo strumento di contemplazione e anche luogo di contemplazione con il quale l’essere umano si stacca dall’io e si avvicina al Sé.
Jung cercò di identificare l’uso del mandala in tutte le culture e lo individuò anche in alcune immagini cristiane.
Jung disegnò il primo dei suoi mandala nel 1916, dopo la stesura dei Sermones e dapprima non ne comprese bene il significato, ma poi ad essi diede il significato di “crittogramma del sé”. Si disegna un mandala non semplicemente per avere uno specchio di sé, ma perché dietro queste forme si cela l’azione di un principio ordinatore. Se Jung assegna un forte valore al principio ordinatore è facile comprendere perché veda nell’arte moderna la forma di un mandala turbato. Per lui l’organizzazione formale dello spazio costituisce l’esteriorizzazione di uno stato psichico. La rottura di armonia e simmetria corrisponde alla disarmonia interiore e alla sofferenza. L’attenzione al mandala è comunque formale, non estetica.
LA FUNZIONE TRASCENDENTE
Sempre nel 1916 il saggio “La funzione trascendente” costituisce una concettualizzazione della sua ricerca sulle immagini. L’opera fu lasciata incompiuta e pubblicata in inglese nel 1957. Il titolo fa riferimento alla più generale funzione psicologica, ma riprende, anche metaforicamente, la funzione matematica che si chiama appunto “funzione trascendente”, composta da numeri reali e immaginari. Qui si pone il problema dei dati della coscienza e dell’inconscio, la prima caratterizzata dall’unilateralità e il secondo dal suo carattere compensatorio. La coscienza è lo strumento che rende possibile all’uomo l’adattabilità all’ambiente, ad eccezione dell’individuo creativo. L’orizzonte della coscienza è limitato perché essa scarta il materiale psichico non adatto e tutto questo “rifiutato” si deposita nell’inconscio, che diventa la sede di molteplici possibilità. Secondo Jung nell’uomo moderno la capacità di autoregolazione della psiche viene meno e l’inconscio represso non viene ricacciato indietro ma va a rafforzare l’apparato cosciente con esiti disastrosi. Gli impulsi originari non mediati rendono assai difficile l’adattamento sociale, occorre per gli uomini trovare un altro modo per ripristinare la relazione tra coscienza e inconscio e quindi instaurare una funzione trascendente, perché consente organicamente di passare da una funzione all’altra (e ciò senza perdita di inconscio). questo è in definitiva il lavoro analitico, un riaggiustamento dei rapporti tra conscio e inconscio, è una trasformazione, o meglio, una traslazione nella quale la psicoanalisi, in modo semeiotico, vede il riaffiorare dell’eros infantile mentre la psicologia analitica, in modo simbolico, vede la finalità di un nuovo orientamento. L’interpretazione semeiotica ha un metodo riduttivo al quale Jung contrappone il suo metodo costruttivo.
La funzione trascendente è il momento culminante del rapporto analitico perché il paziente fa fronte da solo al proprio inconscio e crea una composizione tra i dati di questo e della coscienza. In che modo si arriva al proprio inconscio? con il sogno, come vuole Freud, ma Jung preferisce altre vie, già vicine allo stato cosciente come le fantasie, spontanee o latenti, alle quali tenterà di accedere attraverso l’immaginazione attiva a partire da determinate condizioni affettive. L’affetto è un’intromissione dell’inconscio nella linea della coscienza.
La traduzione in immagine dell’affetto ha già di per sé una valenza terapeutica.
Rispetto a questa immagine emergono due tendenze: un principio della comprensione che rischia però di dare dell’immagine una comprensione intellettuale che ne trascura il carattere eminentemente simbolico e la tendenza a far precedere alla comprensione la completa articolazione formale dell’immagine. “Ma i contenuti inconsci vogliono prima emergere chiaramente, il che è loro possibile attraverso la raffigurazione e solo in seguito giudicati, quando tutto ciò che esprimono è pronto per essere afferrato”.
La raffigurazione estetica, con il suo studio sulla forma, rappresenta dunque la premessa per l’elaborazione intellettuale e in questo modo rischia di sopravvalutare l’importanza dell’aspetto formale. I due momenti, della raffigurazione e della comprensione, dovrebbero essere complementari, mentre se prevale il principio della raffigurazione si può cadere nella tentazione estetica, cioè si può tentare di credersi artisti misconosciuti, mentre se prevale il principio di comprensione si può essere portati a credersi profeti o filosofi.
L’EDUCAZIONE ESTETICA
Il problema degli opposti e della loro composizione diviene centrale nella riflessione di Jung sui tipi ed in particolare è centrale la comprensione di quale sia il ruolo dell’arte in questa composizione. Questa lettura si evince dall’analisi che Jung fa di due testi chiave dell’estetica: “Lettere sull’educazione estetica dell’uomo” di Schiller e “La ascita della tragedia” di Nietzsche. La lettura di questi capitoli costituisce un’introduzione all’esame del rapporto tra Jung e l’estetica. Per lui Schiller è il primo ad attuare una distinzione tra atteggiamenti tipici. In linea con l’autore Jung sostiene che la funzione con cui l’uomo si adatta alla società non è necessariamente la più forte ma piuttosto la più debole, quella che presenta maggiore delicatezza e malleabilità. Nella società dominata dal cristianesimo definita della “collettività”, l’oppressione si spostava dalla società al cuore stesso dell’individuo creando una “società soggettiva di schiavi”. Il cristianesimo non propone una soluzione al problema del male, ma una liberazione, un distacco della funzione superiore da tutte le altre. Schiller propone, come terapia rispetto a questa scissione, un ritorno al mondo greco, ossia il ritorno ad una concezione della vita con minore differenziazione delle funzioni e quindi ad una civiltà non collettiva. Questo ritorno verso l’età dell’oro e verso una ricomposizione delle funzioni si raggiunge con la contemplazione della bellezza. Jung fa notare che la bellezza, per poter esistere, ha bisogno della propria antitesi e inoltre il processo di riequilibrio delle funzioni umane ha un costo. La trasformazione può avvenire solo a discapito della funzione superiore perché si tratta di far riemergere le funzioni inferiori dalla loro opacità. L’unica cosa che si può sperare di ottenere è una forma di equilibrio. La conciliazione delle funzioni umane è, in poche parole, una forma di caduta: le funzioni inferiori non possono arrivare a livello della funzione superiore e questa non è comunque più la stessa. Ogni forma di educazione dell’uomo fa i conti con questa realtà, quindi per Jung questa forma di conciliazione che avrebbe la bellezza è quasi nulla. Tuttavia per Jung il processo di emancipazione delle funzioni inferiori resta un processo necessario. Schiller invece di concentrarsi sulla caduta trova nella bellezza una via trascendentale e Jung definisce questo atteggiamento “fantastico intellettualismo”. La verità razionale non basta a spiegare la realtà e l’elevazione attraverso la bellezza non è una forma di conoscenza, a meno che le parole di Schiller non vadano intese simbolicamente e la bellezza non alberghi nell’uomo non inteso come “uomo greco” ma come “uomo arcaico”.
Schiller cerca nella ragione il principio mediatore tra le forze istintuali in lotta tra loro, ma Jung formula tre argomentazioni contro l’appello di Scxhiller alla bellezza. Per prima cosa la bellezza non può essere un esclusivo riferimento dell’istintualità primitiva perché di per sé presuppone un’educazione estetica per essere compresa. Poi la bellezza, come il cristianesimo, non offre una soluzione al conflitto, ma solo una sua sospensione. Infine la bellezza, come qualunque altra cosa, non può essre l’unica via di superamento del contrasto (è in gioco, per esempio, anche il suo contrario). Già Schiller non distingue tra bellezza ed estetica, anzi c’è in lui una riduzione estetica dei concetti.
Per Jung l’individuo è lacerato dalla tensione dei contrari che conduce ad una momentanea paralisi della volontà. Da questo stallo si origina poi un movimento che porta alla soluzione del conflitto con l’introversione della libido e l’affiorare dell’inconscio come “istanza psichica nella quale tutto quello che nella coscienza è diviso confluisce in raggruppamenti e in strutture le quali, una volta venute come tali alla luce della coscienza, rivelano una natura che presenta elementi tanto dell’uno quanto dell’altro lato, senza per altro appartenere né all’uno né all’altro, e che quindi assume una posizione intermedia e autonoma”. Si dovrebbe arrivare, per Jung, a un simbolo elaborato come elemento conciliatore e questo processo di simbolizzazione è molto simile ad alcune esperienze religioni che vedono nel simbolismo un elemento di trasformazione e nella resurrezione il rinnovamento. Il simbolo unifica gli opposti e costruisce una realtà psicologica che non ha rispondenze nella realtà fisica.
CONFRONTO CON NIETZSCHE
La nascita della tragedia, con l’opposizione tra apollineo e dionisiaco, descrive due tipi, razionale e irrazionale. Sono tipi che si affiancano ai tipi razionali oppositivi, ma che non differenziano la percezione visiva delle immagini interiori né il loro contenuto affettivo. Si conformano quindi al punto di vista estetico. Nietzsche ha in comune con Schiller il richiamo al mondo greco e l’estetismo, anche se egli ne scorge in profondità non solo gli aspetti sfolgoranti, ma anche quelli foschi. Tuttavia egli ne fa comunque anche un esame dal punto di vista estetico mentre i greci risolvevano il conflitto tra apollineo e dionisiaco da un punto di vista religioso. L’atteggiamento estetico è un modo per restare al di fuori del coinvolgimento emotivo, per tenere il dionisiaco lontano.
IL RIFIUTO DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Il problema psicologico posto dalle manifestazioni artistiche del Novecento è esposto da Jung in una lettera del settembre 1960 a Herbert Read. In essa spiega la sua rinuncia a trattare i problemi dell’arte riferendola alla freddezza con la quale erano stati accolti negli anni ’30 i suoi saggi su Joyce e su Picasso. Jung non apprezzava l’arte moderna, diceva di non trovarla bella e si definiva per ciò un filisteo. Le sue considerazioni non sono solo di natura estetica, il suo giudizio negativo è anche morale. Non è arte in grado di elevare e se parla di disagio questo rappresenta e questo trasmette, se si fa testimone di un’epoca diventa semplicemente un sintomo della realtà che rappresenta. Le opere culturali sono per lui oggetto di consumo per al realtà di massa. Quello che manca all’uomo moderno è la tranquillità contemplativa e l’arte contemporanea, che rappresenta la confusione e la frammentarietà, per il fatto di attrarre il vasto pubblico diviene campo di interesse per lo psicologo.
Secondo Jung l’età moderna è data dall’affiorare del lato oscuro della spiritualità medievale. La mancanza del cristianesimo medievale è stata l’esclusione dalla trinità divina del quarto termine rappresentato dal male, che non è semplicemente assenza di bene, ma una entità demoniaca rappresentata dal mondo, dalla realtà esterna. Questa è l’idea invece della civiltà occidentale post-cristiana. L’individuazione del Sé è possibile solo attraverso il confronto con questa realtà esterna a connotazione fortemente negativa..
Il medioevo è l’unica epoca veramente moderna perché detta il tema che caratterizza la nostra civiltà contemporanea e crea l’unico linguaggio in grado di rappresentarla che è quello simbolico. Altro motivo di predilezione di Jung per questa epoca è la figura dell’alchimista che tenta di unire, nei suoi esperimenti, due polarità che si vanno dividendo.
L’artista contemporaneo si rivolge giustamente verso il basso, ossia verso l’inconscio “distruggendo gli ordini propri della coscienza”. Poi però non diventa consapevole del senso di ciò che disvela, non comprende fino in fondo cosa sia quel buio verso il quale si affaccia.