in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 46, Napoli, Liguori, 1999 – Estratto
Il Miserere è una delle preghiere più recitate e famose del Cristianesimo. Il testo consiste in un salmo (Salmo 51) stilisticamente mediocre che, secondo la tradizione, è stato scritto dal re David come pentimento per una colpa di natura erotica commessa con Betsabea, la moglie di un ufficiale dell’esercito. L’articolo si domanda la ragione per cui questa vicenda è riuscita a ispirare la produzione artistica e l’immaginario collettivo per tremila anni. La preghiera di Davide è in definitiva la nostra richiesta di essere accettati con comprensione per ciò che siamo e per quello che siamo “costretti” a fare pur di non tradire noi stessi. Il miserere di Davide è un sì alla vita, la consapevolezza dell’inevitabile ambivalenza dell’agire, offerto in preghiera al proprio Dio. In più, il successo del Miserere nell’Occidente cristiano, può aver espresso una richiesta di accettazione delle componenti libidiche, proprio quelle che il giudizio etico del Magistero ha maggiormente negato.
Trasgredisce infine, Davide ormai diventato re, quando si innamora di Betsabea, si unisce a lei e ne manda a morte il ligio marito. Fino all’arrivo del profeta Natan sembra quasi che il re non abbia coscienza della gravità morale e della nefandezza del suo suppruso. Solo una voce esterna può svegliare l’eroe dal torpore della sua onnipotenza. Davide ritorna in se stesso ed esprime il senso di colpa e la richiesta di perdono con un Salmo, in pratica una moderna canzone, detta Miserere dalla prima parola con cui inizia il testo.
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondani dal mio peccato.
…
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
E non privarmi del tuo santo spirito
…
Quello che colpisce nella trama degli avvenimenti che precedono e motivano la composizione penitenziale è che la trasgressione sembra essere la via maestra dell’eroe per raggiungere se stesso e Dio. L’unica vera colpa sarebbe non rendersene conto: ecco la funzione coscienziale di Natan, il “grillo parlante” inviato dal Signore.
Dopo che il profeta, con la sua didascalica ironia, gli ha aperto gli occhi, la ricihiesta di perdono del re appare come la volontà di legittimare e di integrare il nuovo che ha acquisito, come un appello alla misericordia di Dio per sancire l’ammissibilità dei propri desideri, anche quelli più inopportuni. Davide prega di essere lavato dalle scorie del propellente che è servito a compiere l’indegno gesto, ma non lo rinnega, poiché “talvolta si deve essere indegni, per riuscire a vivere pienamente”.
Dal proseguimento dell’amore di Davide per Betsabea nascerà il futuro re d’Israele, Salomone, colui che, paradossalmente, diventerà l’emblema del retto agire e del giusto decidere. La preghiera di Davide è, in definitiva, la nostra richiesta, dolorosamente colpevole, di essere accettati con comprensione per ciò che siamo e per quello che siamo “costretti” a fare per non tradire noi stessi.
Il pentimento è la consapevolezza della inevitabile ambivalenza del proprio agire, ma è pur sempre -secondo l’espressione di Nietsche- un “dire sì alla vita”. In questo preciso punto –credo- si può collocare la differenza fra la concezione sana e quella immobilizzante relativa al senso di colpa: nella prima, come nel Miserere di Davide, ci si pente per quello che si è dovuto fare per vivere pienamente; nella seconda si smette di vivere per non doversene pentire.